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Università: aumentano le rette. E la Costituzione resta lettera morta

Un argomento tabù per le nostre forze politiche è quello della riqualificazione della spesa pubblica. Il semplice fatto che gli italiani paghino tasse da paese scandinavo, per ottenere in cambio ben poco, è bellamente ignorato, mentre i dibattiti avvengono a colpi di dichiarazioni di principio e degli eterni si dovrebbe di chi, però, non dice mai dove troverebbe i denari per fare quel che, a parole, ritiene così necessario. Il risultato di tutta questa retorica è una società che è tra le più ingiuste d’Europa e tra le più immobili del mondo; in cui il divario tra ricchi e poveri continua a crescere e dove è quasi impossibile ascendere. Una situazione che può piacere alla destra più reazionaria, ma di cui non sembrano rendersi conto neppure quegli esponenti della sinistra che blaterano di difesa di uno stato sociale che, in Italia, semplicemente non esiste.

Esiste invece uno stato clientelare, costruito per comprare consenso e non per offrire servizi, che nessuno si sogna di smantellare e il cui mantenimento comporta, nei fatti, la negazione di quei diritti che sono considerati minimi nel resto d’Europa; primo tra tutti, tanto importante da essere stato esplicitamente affermato dai padri costituenti, quello allo studio.

“I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” recita l’articolo 34 del nostro documento fondamentale. A più di sessant’anni dalla sua approvazione, i “capaci e meritevoli” esistono ancora, ma per “raggiungere i gradi più alti degli studi” nel senso più vero dell’espressione, devono trovare il modo di andarsene a studiare all’estero, dato che nessuna università italiana figura più tra le prime 200 al mondo, secondo la classifica stilata da Thomson Reuters e pubblicata dal Times per il 2012-2013. Quanto ai “privi di mezzi”, starebbero meglio in qualunque altro paese europeo, Gran Bretagna post-tatcheriana assolutamente compresa. Dopo decenni di quella che da noi si chiamerebbe macelleria sociale, un ragazzo inglese figlio di genitori senza titoli di studio, ha oltre il 40% di possibilità d’arrivare alla laurea; oltre il quadruplo di quelle che ha un italiano nelle sue stesse condizioni.

E le cose stanno addirittura peggiorando. Secondo l’indagine di Federconsumatori appena resa pubblica, le rette degli atenei italiani, rispetto all’anno scorso, sono aumentate in media del 7%. Non solo, ma l’aumento è mediamente più elevato proprio per gli studenti con redditi famigliari più bassi, per cui è stato dello 11,6%, rispetto a quelli appartenenti alle famiglie più “ricche” per cui è stato solo del 2,8%. 

Mancano le risorse, è la spiegazione che danno i rettori di questo stato di cose; il fondo di finanziamento ordinario non basta neppure a coprire le spese e il ricambio dei docenti (quelli di prima fascia sono diminuiti del 20% in quattro anni) è bloccato dalle norme contenute nella legge sulla spending review, mentre i tagli hanno già provocato una riduzione del 10% del numero dei ricercatori. Per far tornare le università italiane competitive in Europa, dicono ancora i Rettori, servirebbero almeno 550 milioni.

Soldi che, a fronte di 800 miliardi di bilancio dello stato (sì, mille e seicento volte di più) dovremmo trovare a costo di tagliare tutto il tagliabile, come dovremmo trovare i soldi per dare delle borse di studio dignitose a chi le merita e introdurre un pre-salario che consenta a chi non ha altri redditi di poter studiare a tempo pieno.

Ci si decida ad abbattere i 26 miliardi di costi della politica, si decurtino gli stipendi più elevati della pubblica amministrazione, si abbassino le pensioni più alte, si passino al pettine i bilanci delle regioni e degli enti locali, si mettano al minimo dello stipendio le legioni assunte dalla mala-politica, ma i soldi per fare funzionare le università al meglio e per garantire il diritto allo studio si devono trovare; ne va del futuro del paese e di quel poco che resta della sua civiltà.

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