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Una Costituente per ripartire

Dopo Monti, con lui o qualcun altro al governo, potrebbe essere l'ultima occasione, per la politica, di salvare sé stessa cambiando sé stessa.

Le vicissitudini legate all’approvazione della sempre più diluita legge sulla corruzione, spiegano bene come mai non si possa attribuire al lavoro del Professore ottimo mio (e di una metà abbondante degli italiani, per quel che possono valere i sondaggi) un voto più che buono. Monti, infatti, nel rappresentare ai mercati (i suoi detrattori dicono che sia una loro creatura; bravi ragazzi, al suo posto mettiamo qualcuno che dispiaccia ai mercati e i soldini ce li facciamo prestare dai venusiani) e al mondo un Italia, seria ed affidabile, diversa da quella berlusconiana, ha compiuto un lavoro straordinario, paragonabile solo a quello di De Gasperi, ma, tenuto in scacco dall’ineffabile (in senso etimologico; l’uso degli aggettivi adeguati farebbe scattare delle denunce) Parlamento che abbiamo avuto la sventatezza d’eleggere, non ha potuto fare praticamente nulla per risolvere le cause profonde della nostra trentennale crisi.

Di questo non pare rendersi conto la politica che, seppure a volte dica l’esatto contrario, crede che dopo la cura Monti, tutto possa tornare in buona sostanza come prima; che scongiurato anche grazie all’intervento del Professore il rischio d’immediato affondamento (a dire ora che non fosse reale, che Monti non sia servito, sono spesso gli stessi che un anno davano per certa l’evaporazione della nostra economia), l’Italia possa riprendere, con minime correzioni, la sua vecchia rotta.

Mantenere lo status quo è, infatti, il massimo a cui possa realisticamente aspirare un governo che dovesse emergere dalle prossime elezioni con una ristretta maggioranza parlamentare; che, forte del proprio 51 o 55%, non potrebbe neppure tentare, per fare gli interessi del paese, di scontrarsi contro quelli di questa o quella delle nostre categorie, tanto potenti quanto refrattarie ad ogni cambiamento.

Non solo. Messi da parte quelli che sognano di fare dell’Italia una nuova Albania e quelli che invece la vorrebbero in competizione con il Laos o la Cambogia (ormai, si sa, anche gli operai cinesi hanno pretese), accomunati dalla sfiducia nella per loro moribonda liberal-social-democrazia (che devono peraltro aver visto in televisione, in qualche documentario sul Nord Europa, dato che da noi è difficilissimo trovare alcunché di liberal e il social è terribilmente scarso), dovrebbe essere relativamente semplice stilare un programma economico che veda d’accordo, nei principi, la stragrande maggioranza degli italiani. Metterlo in pratica, però, comporterà decisioni difficili, possibili solo a chi goda della fiducia dei cittadini prima che di quella del Parlamento: un obiettivo assolutamente irrealistico per qualunque parte politica, mentre il 50% degli italiani non saprebbe proprio chi votare e molti altri esprimono, più un’intenzione di voto, la propria rassegnazione al voto.

La politica, se capisse i termini della questioni, dovrebbe limitarsi ad individuare quel programma e affidarne la realizzazione ad un presidente del Consiglio che non provenga dalle proprie screditate fila; se non a Monti, a qualcuno che gli somigli moltissimo.

Unica preoccupazione dei nostri partiti, in questo momento, dovrebbe essere quella di ricostruire il ponte tra loro e il resto della società; di trovare al proprio interno chi sia in grado, nel corso di qualche anno, di recuperare la fiducia dei cittadini che hanno perso, e l’autoritas che non hanno mai avuto, i capi della seconda Repubblica. Un’operazione difficile e che non può limitarsi ad un cambiamento ai vertici quando anche a livello locale i partiti sembrano putrefatti, zeppi di ferrivecchi pentapartitici e infestati da giovani “professionisti” che dei primi hanno tutti i peggiori difetti. Un obiettivo che non potrà essere raggiunto se la classe politica non si darà altre regole per la propria selezione, dentro una cornice istituzionale rinnovata, che faccia tesoro delle esperienze della prima Repubblica, affrontando una volta per tutte la questione della governabilità, e da cui siano state rimosse le pezze malmesse dalla seconda Repubblica, ponendo più precisi limiti ai poteri dell’esecutivo e restituendo il parlamento alla pienezza delle su funzioni.

Quel che servirebbe, per poter fare tutto questo, come per rivedere il nostro sistema bicamerale o riconsiderare i rapporti tra stato, regioni ed enti locali, sarebbe una vera e propria Assemblea Costituente, eletta, come quella che l’ha preceduta, con il più puro dei proporzionali.

Una Costituente, di cui il prossimo Parlamento dovrebbe essere l’anticamera, come atto di fondazione di una nuova Repubblica, in cui emergano energie e volti nuovi. Forse l’ultima possibilità che la nostra politica potrebbe avere, cambiando se stessa, di salvare se stessa.

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