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Un’opera per questi giorni: Marcel Duchamp, Fontana

Un'affermazione di assoluta libertà creativa.

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Marcel Duchamp, Fontana, 1917.
E’ una foto del pezzo originale scattata da Alfred Stieglitz. Quelle esposte oggi nei musei sono delle repliche.

Parigi? New York? Forse Londra o Berlino? Ma no. Lasciamo stare le banche, il cioccolato, gli orologi a cucù e tutti i luoghi comuni; le rivoluzioni nascono a Zurigo. Anzi, in uno dei vicoli della città: lo Spiegelgasse. A prepararne una, sta lavorando il signore tutto serio che vive al numero 14. Eccolo lì, di ritorno dalla biblioteca, con il pizzetto e il berretto di pelle schiacciato in testa. Non solo assomiglia a Lenin: è proprio lui, Vladimir Il'ič Ul'janov. Tra le mani, ha un manoscritto: è quello di un capitolo de L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, che pubblicherà tra poco. Lo sta rileggendo mentre cammina. Di tempo, non ne ha mai abbastanza. Trova, però, un momento per fermarsi davanti al Meitrei Bar, al numero 1 della via in cui abita. Lo incuriosiscono la musica e le risa che sembrano provenire dal retro del locale. Un piccolo cartello gli dà la spiegazione che cerca; là dentro hanno aperto un cabaret. Si chiama Voltaire. Mah …. Se solo non avesse fatto così tardi, se solo non temesse che Nadeshda abbia già messo in tavola, quasi quasi andrebbe a darci un’occhiata. Forse lo farà dopo cena, se a sua moglie andrà di fare due passi.

Se poi Lenin ci sia andato o no, la storia non lo dice. Lo avesse fatto, avrebbe avuto modo di assistere a un’altra rivoluzione. Era in corso dal 5 febbraio 1916, il giorno in cui il Voltaire aveva aperto i battenti, e, almeno per la Storia dell’Arte, è stata importante quanto quella russa per la storia senz’altro. Una rivoluzione che chiamiamo dadaismo, ma che forse allora non aveva ancora un nome. Forse, perché sulle origini del più moderno dei movimenti moderni si intrecciano le leggende. Il termine dada, in francese infantile cavallo a dondolo, ad ogni modo, pare sia stato usato per la prima volta in questo contesto nel maggio 1916, nella presentazione del primo numero della rivista Cabaret Voltaire: “La revue paraitra à Zurich et portera le nom Dada (Dada) Dada Dada Dada Dada”. Autore dello scritto è Hugo Ball, che del Voltaire è anche il fondatore. E’ pure tante altre cose, attore, poeta e scrittore, ma soprattutto è un regista teatrale. Ed è tedesco. Con lui, ci sono un romeno, che però scrive in francese, Tristan Tzara, e alcuni altri tedeschi. I più famosi tra loro, sono Hans Arp, che si fa chiamare anche Jean e ha una madre alsaziana, e Hugo Ricther, pittore, grafico e sperimentatore di tecniche cinematografiche. Perché sono a Zurigo? Perché in tutto il resto d’Europa c’è la guerra. E, a riguardo, hanno le idee chiare. Un altro di loro, Richard Huelsenbeck, studente di medicina diventato batterista, poeta e scrittore, nel 1918 autore anche di un Manifesto Dada, le spiegherà benissimo: “Nessuno di noi aveva la minima comprensione del coraggio che serve per farsi ammazzare a fucilate in nome dell’idea di nazione (…) e di un gruppo d’interessi formato da psicopatici partiti dalla Vaterland, con il loro Goethe nella bisaccia, per prendere a baionettate ventri francesi e russi”.

Non hanno nulla a che spartire con gli espressionisti tedeschi, come Beckmann o Macke, che sono andati al fronte di corsa. Sono tutto il contrario dei nostri futuristi che, perlomeno prima di sperimentarla sulla propria pelle, inneggiavano alla guerra “unica igiene del mondo”. Sono pacifisti e internazionalisti quelli che si riuniscono nel Cabaret Voltaire. Ma restano, prima di tutto, artisti. E come reagiscono all’orrore di quel che si sta compiendo tutt’attorno alla pacifica Svizzera? Facendo arte, certo. Come denunciano i falsi miti che stanno mandando al massacro un’intera generazione di europei? Come smascherano le bugie dei governi e della loro propaganda? Come cercano di mettere in crisi tutto il sistema di valori che sta dietro a quell’inaudita carneficina? Facendo un’arte che è anti-arte. Che non si cura delle regole; che anzi le viola tutte e coscientemente. Che cerca di fare piazza pulita di tutto quel che c’è stato prima. Che dissacra e ironizza. Che si prende gioco della società borghese e di tutte le sue certezze, a cominciare proprio da quelle riguardo a come debba esser fatta un’opera d’arte. I dadaisti scrivono quindi poesie fatte di onomatopee, parole inventate e suoni senza senso; mettono in scena rappresentazioni dalla leggendaria confusione, ma che non vogliono apparentemente dire nulla; depongono pennelli e scalpelli e, invece, mettono insieme i più diversi oggetti e materiali per produrre opere, spesso effimere, che non sono né quadri, né tradizionali sculture.

Mentre ovunque scoppiano le bombe, al numero 5 della Spielengasse, detto altrimenti, esplode la creatività. Nelle serate del Voltaire succede di tutto e di più. In almeno un’occasione, il pubblico assale gli attori sul piccolo palcoscenico. In sala si fanno vedere artisti di tutta Europa: ci vanno Marinetti e De Chirico; Kandinskij, Klee e Max Ernst. E’ una rivoluzione, appunto. Chi vuole assisterci, però, è meglio che si sbrighi. Prima di tutti, proprio il signor Ul'janov: è destinato a rimanere in città solo fino all’Aprile 1917, quando sale su un treno speciale, attraversa con un salvacondotto la Germania e va a San Pietroburgo a fare quel per cui tutti lo ricordiamo. Gli altri abitanti di Zurigo hanno a disposizione solo qualche mese in più. Prima della fine di quell’anno, infatti, se ne andrà anche Hugo Ball, che preferisce andare a passare l’inverno nel relativo tepore del Canton Ticino, e in breve il Cabaret Voltaire sarà storia e leggenda.

Il Dadaismo, però, non muore per niente. Gli scritti dei suoi fondatori, diffusi dalla neutrale Svizzera, sono stati letti da artisti e intellettuali di tutta Europa. La diaspora del gruppo del Cabaret Voltaire dissemina il germe del Dadaismo nelle principali città tedesche e a Parigi, dove ripara Tristan Tzara. E’ un’epidemia; una pandemia, anzi, che fa del Dadaismo il primo movimento davvero mondiale. Il Futurismo? Non ha attecchito fuori d’Italia. Il Cubismo? In fondo quasi solo francese, anzi, parigino. Il Dada, invece arriva ovunque. Anche a Buenos Aires. Anche a New York.

A fargli attraversare l’Atlantico, contribuisce Francis Picabia, figlio di un diplomatico cubano, che è poliglotta e uomo di mondo. E’ stato vicino al Cubismo, ed è stato, con i suoi ritratti meccanici, un precursore, o quasi, del Dadaismo. Vive tra Parigi e Barcellona, negli anni della guerra, ma, nel corso di un lungo soggiorno di cura a Zurigo, ha anche modo di frequentare il Cabaret Voltaire. Quel che vi vede gli piace; sente che vi vibra il suo stesso spirito. Ne discute con gli amici parigini, i poeti André Breton e Paul Éluard. Ne fa partecipi anche gli amici che ha lasciato negli Stati Uniti, dove ha vissuto un paio d’anni. Ne scrive a un altro amico, che invece a New York ci è andato da poco e per motivi simili a quelli che avevano spinto Hugo Ball e soci a cercare rifugio in Svizzera.

Quest’amico si chiama Marcel Duchamp e ha una personalità tanto complessa e interessi tanto vasti da non sapere bene come presentarlo. Pittore? Scultore? Intellettuale? Lui, forse, preferirebbe essere riconosciuto come campione di scacchi; il gioco che è la sua più grande passione. Lo dice anche Emmanuel Rudzitsky, in arte Man Ray, che lo ha convinto a trasferirsi negli Stati Uniti. Come pittore, ad ogni modo, Duchamp è già famoso. Ha dipinto poco, non più di una cinquantina di tele, ma alcune delle sue opere sono celeberrime. Almeno una, Nudo che scende le scale, sintesi di Futurismo e Cubismo, la conosciamo proprio tutti; la troviamo riprodotta su ogni manuale. Dal 1913, però, ha smesso di dipingere. Non lo soddisfa più la pittura tradizionale, che definisce “retinica”, solo visuale, e “olfattiva”, con riferimento all’odore di trementina. Vuole praticare un’arte che abbia piuttosto a che fare con “la materia grigia della nostra comprensione”. Una sua opera, proprio del 1913, per capire cosa abbia in mente? La realizza lasciando cadere, sopra della stoffa blu, tre fili lunghi un metro che fissa poi nelle posizioni che hanno assunto. Sono linee curve che gli forniscono il profilo secondo cui ritagliare tre assicelle. Al tutto, prodotto del caso e della forza di gravità, dà il titolo di 3 stoppages étalon (3 rammendi tipo).

Un’operazione che pare già dadaista? Certo che sì. In fondo, nonostante i vari manifesti, nessuno ha mai fornito una definizione precisa di cosa sia il Dadaismo. Forse si è avvicinata a farlo più di altri la rivista berlinese Der Dada che, nel 1919, affermava: “Dada è niente, che è come dire che Dada è tutto”. Non solo. Forzare i limiti, andare oltre, è proprio di tutti i veri artisti, da sempre e specie nei momenti di crisi delle società. Un concetto che il vecchio Hans Arp, celebrando il cinquantenario del movimento che aveva contribuito a fondare, ha espresso con una formula tanto felice quanto sintetica: “Prima del Dada c’era il Dada”.

Duchamp, dunque dada da prima del Dada, quando viene a sapere di quel che si sta combinando a Zurigo, continua con ancor maggior convinzione lungo la strada su cui si era avviato. Ha già “inventato” il ready made, prendendo oggetti d’uso comune e facendone opere d’arte. La più famosa, probabilmente, è Ruota di bicicletta, del 1913: una ruota di bicicletta, appunto, completa di forcella e montata su uno sgabello di legno. Nel 1917, iscrive alla Mostra annuale della Society of Indipendent Artists (che ha contribuito a fondare nel 1915) l’opera che vedete. La intitola Fountain, Fontana, la firma con uno pseudonimo, vi appone la data e… e non fa nient’altro. La direzione della mostra, con grande scandalo dei dadaisti, che abbandoneranno la Società degli Artisti, la rifiuterà: altro che arte, quello è semplicemente un orinatoio. Oggi è una delle opere più famose del secolo appena passato, proprio perché è solo un orinatoio. Scandalosa, ironica, Dada, Fountain è infatti anche un punto di arrivo; un’affermazione di assoluta libertà creativa. Che cosa è un’opera d’arte? A questa eterna domanda, Fountain offre una risposta che pare definitiva: è qualunque cosa, anche il più vile degli oggetti di produzione industriale, che un’artista selezioni per una qualche sua ragione, si senta in dovere di firmare e pensi debba essere inserito nel contesto, la galleria o il museo, che è proprio delle opere d’arte.

Inutile, quindi, offrire altre chiavi di lettura dell’opera. Quanto alle interpretazioni, non possono che essere personali e, se ci sono, probabilmente hanno poco a che fare con le intenzioni dell’artista. Piuttosto, vi lascio con un paio di considerazioni. La prima è che Duchamp forse avrebbe fatto meglio a non darle quel titolo. L’avesse chiamata semplicemente Orinatoio o l’avesse lasciata senza indicazioni, avrebbe strappato anche l’ultima tenue maschera di rappresentazione, metafora o somiglianza. Meglio ancora, avrebbe fatto ad usare un oggetto ancor più banale, neutro, privo di connotazioni. Un cucchiaio, per esempio, per un’opera ovviamente intitolata Cucchiaio. Mi chiedo poi se Duchamp, da scacchista, avesse già previsto quel che sarebbe accaduto dopo. Non lo escludo. Definita a quel modo l’opera d’arte, restava da decidere chi fosse un artista. Lo hanno fatto, per tutti, i galleristi. Ripetendo pari pari il ragionamento di Duchamp, hanno nella pratica affermato: chiunque noi decidiamo di presentare per tale. E opera d’arte, oggi, è diventato tutto quel che per tale riescono a vendere.

Il risultato finale del cammino di liberazione dell’arte moderna? L’asservimento dell’artista ai più brutali meccanismi del mercato. Non so che ne penserebbe il signor Ul'janov, ma a me pare una nuova dimostrazione di come l’arte finisca sempre per rispecchiare la società che la produce. In questo caso, purtroppo.

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