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Un’opera per questi giorni: Emilio Vedova, Immagine del tempo (Sbarramento)

Una dolorosa chiusura. Un mare dalle onde ferrigne e taglienti. Un artista imprescindibile, come tutti i grandi veneziani.

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Emilio Vedova, Immagine del tempo (Sbarramento) 1951
Tempera all’uovo su tela di 130,5 x 170,4 cm. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia

Acqua stanca, morchiosa e verdastra, che scioglie antiche glorie in vaghi riflessi e rare scaglie d’argento, tra le brume di un pomeriggio invernale. Bellezza effimera di un fuoco di paglia, in un’immagine di Cardarelli, che un sole settembrino accende negli ori bizantini. Una città al passato, liquida e cadente. Esausta. Morente e buona solo per mandarci a morire gli Aschenbach o per lasciare vagare tra le sue calli la follia (ma era davvero follia?) del vecchio, irragionevole e testardo Ezra. La canta così anche un nostro bardo generazionale; intenta a vendere ai turisti “la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi”. Talvolta, in quelle sere in cui la lontananza esige d’esser chiamata esilio, è come ci sforziamo di ricordarla anche noi, poeti russi, scandinavi col sacco a pelo o vagabondi italiani, che, pur senza averci mai vissuto ci consideriamo suoi figli. Ci raccontiamo allora, per non cedere alla nostalgia, che il Leone è ormai un gatto spelacchiato e non regge più la spada o il libro, ma un cavalluccio di vetro soffiato a Murano o, più probabilmente, Made in China. E’ solo la finzione di un momento. Poi arriva quel ricordo. Magari quello di un pomeriggio di luglio, mentre maledicevamo d’essere tra quella calca sudata, quando da Punta della Dogana abbiamo volto lo sguardo verso la Giudecca e abbiamo visto San Giorgio sfumare nell’afa come in un quadro di Virgilio Guidi. E torniamo a sentire gli artigli sprofondarci nel cuore.

Artigli, fatti non solo d’immagini struggenti, che il Leone di San Marco conserva affilatissimi anche mentre, perso nel suo campo di porpora imperiale, sembra pendere inerte nella minacciosa bonaccia della Storia. E voce che conserva potente, capace ancora di ruggire, per chi ha orecchie per ascoltarla. Per chi, navigando il Canal Grande, non vede solo una cartolina, ma avverte l’energia immagazzinata in quelle pietre, portate lì una a una a testimoniare la potenza e l’orgoglio. La potenza che troviamo in Tiziano, quando si fa grandissimo. L’orgoglio quasi rabbioso, dell’uomo che tutto ha fatto e può fare dal nulla, delle pennellate del Tintoretto più maturo.

Troppe parole, spese per una città pur così bella? Capire Venezia, sentire il vigoroso ritmo scandito dalle facciate dei suoi palazzi, intuire quel suo nocciolo di forza e verità che resiste (questo è il verbo chiave) ai secoli come all’invasione dei gitanti, vuol dire anche darsi ragione di quanto profonde siano le radici della pittura di Emilio Vedova.

Come definirlo? Espressionista astratto? Specie nel mondo anglosassone, lo si paragona agli artisti attivi in quegli anni negli Stati Uniti e cui è stata affibbiata questa etichetta. Un’operazione che ha senso, pero, solo ricordiamo che Vedova non è nato in Wyoming, ma che ha aperto per la prima volta gli occhi (nel 1919) alla luce e ai colori della laguna, e che non si è formato nelle accademie bostoniane o newyorkesi, ma in poche lezioni serale della Scuola dei Carmini e, soprattutto, avendo per maestro Venezia: le sue architetture, specie barocche (San Moisé, cui dedica numerose tele), e i capolavori dei grandi del suo passato, che copia, anzi rifà, in quello stesso periodo.

In particolare, avvia proprio con Tintoretto il Furioso, di cui arriva a dirsi figlio, un dialogo che non interromperà mai. Se n’è potuto rendere conto chi, nel 2013, ha avuto la fortuna di visitare la mostra organizzata da Germano Celant nella Scuola Grande di San Rocco: nelle opere degli anni 40’, una per tutte la strepitosa Strage degli innocenti, esposte accanto ai Teleri che le hanno inspirate, c’era già tutta, o quasi, quella che sarà la sua arte.

Simile a quella degli espressionisti astratti d’Oltreoceano, invece, è la povertà del giovane Vedova, costretto, come ricorda lo stesso Celant, a “pulire i tavolini di piazza San Marco per vivere”. Una povertà, si è scritto, forse confondendo causa ed effetto, che ha fatto di questi pittori dei “ribelli naturali”. La ribellione di Vedova, però, non ha solo una dimensione personale, che pure lui non nega: “Dipingo per sputare la mia bestemmia”. E’ anche impegno politico; è resistenza.

Resistenza nel più proprio dei termini, prima di tutto. Dopo l’otto settembre, si unisce ai partigiani: per la gran barba che porta, il suo nome di battaglia è Barabba. E’ attivo prima nel Lazio e poi nel Bellunese, dove sfugge a una retata ma resta ferito. Resistenza cui approda dopo aver già fatto antifascismo con i pennelli. I suoi primi quadri “politici” sono inspirati dalla guerra di Spagna. Con lo stesso spirito, nel ’42, assieme a Gottuso, Birolli, Morlotti, Fontana e altri, si unisce al gruppo Corrente, nato per affermare “la funzione rivoluzionaria della pittura” attorno alla rivista fondata da Ernesto Treccani. Un impegno politico che non termina con la Liberazione; che lo porta a essere, nel 1946, tra i firmatari del manifesto Oltre Guernica: un richiamo, partendo dal famoso quadro di Picasso, alla necessità di un’arte comunque ancorata alla realtà. Impegno che si traduce anche nella scelta, comune a tutti i firmatari del manifesto, di aderire alla Nuova Secessione Italiana, naturale seguito di Corrente, che prenderà poi il nome di Fronte Nuovo delle Arti.

Un’esperienza che dura solo fino al 1950, quando il movimento si scioglie per il dissidio tra la sua ala figurativa, capeggiata da Gottuso, e gli astrattisti, primo fra tutti proprio Vedova. Lui è un resistente, appunto, e non si sottomette neppure al richiamo all’ordine, all’ortodossia real-socialista, del PCI. Continua a fare arte impegnata, ma a modo proprio, con quadri come questo.

E’ del 1951, è una tempera all’uovo, una tecnica antica la cui scelta non può essere stata casuale, e s’intitola Immagine del tempo (Sbarramento). Molti vedono richiami futuristi nel dinamismo delle sue figure angolose. Ci possono essere. Anche la prima parte del titolo, che Vedova utilizzerà per altre opere, fino al 1959, con quel suo richiamo al tempo sembra echeggiare istanze d’inizio ‘900. Il tempo di Balla e Boccioni, però, era prima di tutto quello della fisica; era il succedersi degli instanti nello spazio modificato dalla glorificata velocità delle macchine. Il tempo di Vedova, che dipinge “contro tutte le esaltazioni tecnologiche, per una difesa dell’uomo e della sua integrità”, è invece quello in cui vive: è il tempo della Storia, con le sue trasformazioni sociali e le sue lotte politiche; con le sue tensioni e i suoi conflitti. Sì: è il tempo di Guernica. Indubbi, sono i richiami a Picasso (che Vedova indica pure tra i propri padri, assieme agli espressionisti di Weimar) anche nelle rette che scandiscono il quadro e nelle figure geometriche che vi appaiono: triangoli e rettangoli che però non dominano la composizione; che sono quasi sovrastati da un assordante rumore di fondo. Da un’esplosione di energia che nessuna griglia compositiva potrebbe contenere. Una pittura gestuale? Sì, ma non di un esteta del gesto; di un artista che, a pennelli carichi, con la tela fa l’amore o, come qui, la guerra. Che dà sfogo a quanto sente di più viscerale; che libera i propri istinti e quanto ha di più profondamente umano. Sono anche queste energia e istintività a differenziare Vedova dagli americani. Neo-cubista come Kline? In apparenza, nei quadri di questi anni. Kline, però, dipingeva dopo aver dedicato decine di schizzi alle proprie forme nere in campo bianco. “Un Pollock delle barricate”, definiva Vedova un giornale inglese. Una semplificazione forse più fondata della precedente, ma ricordando che Pollock, che pure dipingeva senza spartito, si prendeva il tempo necessario a trovare la nota giusta: meditava su ognuna delle colature che lasciava cadere. Ci teneva a precisarlo, come a escludere dalla propria arte ogni elemento di casualità, tranne quello implicito nel procedimento che aveva sviluppato. Anche la sua pittura vibra di energia, ma è quella di un brano jazz. Vedova dipinge una musica diversa, fatta di ritmi furenti e note primordiali. Quale ricorda? A me, quella degli Ō-daiko: i grandi tamburi giapponesi su cui i virtuosi si avventano come lui menava quelle sue pennellate tanto violente da parere fendenti.

Una furia che vediamo anche in questa tela. Inutile tentarne un’interpretazione; superfluo, proprio per l’essenzialità del suo linguaggio, qualunque tentativo di de-costruzione. Solo possiamo avvertire un senso di dolorosa chiusura, o di sbarramento proprio come dice il suo titolo, e restare ad ammirarla. Come per le opere di Pollock, ci sembra d’essere d’innanzi a un mare. A volte è un mare di segni in cui vorremmo tuffarci, quello dell’americano. E’ a un tempo affascinante e spaventoso, questo di Vedova. E’, solo questo mi viene alla mente, “l’oceano ruggente d’ira” usato da Kant per spiegare come, oltre al bello, esista il Sublime.

Sono onde affilate e ferrigne, terribili, da cui si ostina a emergere il colore. Poche pennellate che negli anni si faranno sempre più grasse e sensuali, fino a diventare ampie e frastagliate campiture di rosso, di giallo e di quel suo raro verde “que te quiero verde”. Colori che esploderanno, assieme alle tensioni che questo quadro riesce a malapena a contenere; che imporranno a Vedova di dipingere polittici capaci di snodarsi nello spazio: i Plurimi degli anni ’60; le opere per cui è oggi più conosciuto. Momenti importanti, ma solo momenti, nella lunghissima carriera di un artista che, piaccia o no, resta fondamentale conoscere per chi, in questo inizio di XXI secolo, ancora voglia credere nella pittura. Imprescindibile, come tutti i grandi veneziani.

P.S. Non ho scritto dell’amicizia tra Vedova e un altro “resistente”, Luigi Nono. Un sodalizio anche artistico (i due collaborarono nella realizzazione dell’opera Intolleranza ’60 e, nel 1981, del Prometeo) che meriterebbe un libro. Dopo aver rimarcato come Venezia, sarà pure morente come vuole lo stereotipo, ma è riuscita a crescere simili giganti, mi permetto di “offrirvi” questo brano. Si può sentire un pennello toccare la tela? Si può sentirlo scorrere e lasciare una traccia, gialla o rossa, che si allarga e allunga per sfumare fino a sparire? Grazie a Luigi Nono, si può.

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