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Un’opera per questi giorni: Edward Hopper, Nighthawks

Uno squillo giallo che è, a suo modo, una dichiarazione programmatica. Un soffitto, illuminato dalle luci al neon. Se il nostro occhio è attirato dalla luce, questa è la prima cosa che vediamo di Nighthawks, una delle più celebri tele di Edward Hopper.

Quasi altrettanto luminoso, il bianco della bustina e della camicia che indossa il barista. Elementi irrilevanti di una narrazione messi in primo piano dal caso; che sono dipinti a quel modo, perché sono così. Sono un pittore realista, pare ci voglia dire Hopper, non semplicemente figurativo: dipingo la realtà per come si presenta. La retorica, nei miei quadri, non trova spazio.

Nighthawks (I nottambuli, ma, letteralmente, Falchi delle notte), non è però, nonostante lo possa sembrare, un'opera di realismo fotografico. Quella caffetteria potrebbe certo esistere (e di fatto pare sia esistita, a due passi dalla casa dell'artista nel Greenwich Village); i quattro personaggi che la popolano, pure. La composizione che formano, è però semplicemente perfetta. Linee e superfici colorate, calibrate con una precisione degna di Mondrian, scandiscono spazi le cui proporzioni avrebbero intrigato Piero. È realtà, dunque, quella che abbiamo di fronte, ma filtrata dalla ragione; trasfigurata dalla poesia di un maestro arrivato ai vertice della propria arte.

Josephine, sua moglie, che riportava nel suo diario i progressi del lavoro del marito, ci rivela il giorno esatto in cui completò questo suo capolavoro: era il 21 gennaio 1942. Per l'America, un momento di tragedia: i giapponesi avevano attaccato Pearl Harbor da neppure due mesi. Per Hopper, che a giugno avrebbe compiuto sessant'anni, è invece un periodo felice. O lo potrebbe essere. È uno dei riconosciuti maestri dell'arte americana; è celebre e i suoi lavori sono contesi da collezionisti e musei. Quello stesso quadro sarà comprato, con la vernice ancora fresca, dall'Art Institute di Chicago per la bella somma di tremila dollari; circa 50 mila dollari d'oggi. Non è arrivato lì per caso. Ha avuto la fortuna di nascere in una famiglia benestante, anche se non ricca, che lo ha incoraggiato nella sua vocazione artistica e gli ha permesso di frequentare la New York School of Art and Design. Lì, ha avuto ottimi insegnanti. Uno? Robert Henri, autore di quello splendido libretto titolato The Art Spirit, che sicuramente gli avrà dato buoni consigli si come imbastire una composizione. In più, per completare la propria formazione, Hopper ha anche potuto soggiornare lungamente in Europa, e in particolare a Parigi. Studi e viaggi che non sono bastati a fare di lui quello che è. In più, perché la sua pittura si definisse, ci sono voluti anni nel ventre della balena, passati lavorando più che altro come incisore e illustratore. È solo nei primi anni venti, quando è già sulla quarantina, che i suoi quadri cominciano ad essere notai dalla critica: l'inizio di una fortuna che sarebbe cresciuta anche durante la depressione e continua tuttora.

Cosa hanno di tanto speciale le opere di Hopper? Perché attraggono noi almeno quanto attrassero i suoi contemporanei? Lo vediamo anche in questo quadro. In quelle quattro figure disposte a comporre quella che è, quasi a tutti gli effetti, una natura morta; anzi, a still life: una vita silente. Quattro solitudini che la luce artificiale, fredda come è sempre la luce di Hopper, ritaglia in uno spazio che li contiene ma che non abitano; che non è loro. Quattro silenzi, appunto. Forse il barista sta dicendo qualcosa, ma, al massimo, può solo trattarsi di una casuale battuta. Quattro vite che solo si sfiorano; anche quelle di quell'uomo e quella donna seduti accanto. Lui, sotto a quel cappello, che guarda davanti a sé: forse il barista, forse il vuoto. Lei, con quel vestito rosso, che osserva qualcosa che tiene tra le dita: un biglietto di qualche tipo, parrebbe. Quattro attese. Di una parola, di un gesto; del passare di quell'istante congelato. Spazi scanditi quasi come quelli Piero della Francesca; luce zenitale, anche se fatta da lampade al neon, come quella dei suoi perenni mezzogiorni. Gli attimi che Hopper dipinge, però, non sono quelli eterni di Piero: sono gocce di un presente denso come catrame, sul punto di staccarsi e precipitare. Un tempo metafisico? Le assonanze, non necessariamente dovute a diretta influenza, tra molti dei quadri di Hopper e il De Chirico delle Piazze d'Italia, mi paiono evidenti. È però nelle immagini di un pittore spagnolo del siglo de oro, Juan Sánchez Cotán (semplici nature morte, appunto, fatte di pochi oggetti distribuiti in spazi quasi vuoti) che personalmente più ritrovo quella angosciante sensazione di provvisorietà.

L'ansia generata negli spagnoli dal desengaño verso il sogno imperiale, simile quella che è dolorosamente propria della condizione moderna. È dunque una pittura di denuncia, quella di Hopper? Qualcuno nell'America degli anni 50 lo ha pensato, arrivando a bollarla per comunista. Non lo è, invece; non più esplicitamente di quanto lo siano i bodegones di Cotan. Hopper può aver amato Lautrec ed essersi ispirato al suo Absinthe, ma le sue raffinatissime stesure (guardate con che economia di tocchi rende la trasparenza della vetrata che sta dietro il bancone: straordinaria) non hanno nulla del pathos impressionista. Il suo sguardo non si lascia trasportare dall'emozione, non si abbandona al con-sentimento. È spietato, o capace di nascondere la propria pietà; distaccato. Una lontananza dai soggetti, un rifiuto della poetica d'occasione, per quanto nobile, che ci rende facile immaginare Nighthawks dipinto oggi: un fast-food all'ora di chiusura al posto della caffetteria; degli abiti diversi e niente cappelli, perché la moda è cambiata. Medesimo il silenzio.

Non denuncia, Hopper, come pretende di offrire soluzioni. Una lezione, però, potremmo ricavarla da quel che manca alle sue tele. Lui sarà pure stato lungamente a Parigi, ma guardandole, si direbbe che gli ismi non ci siano mai stati; che le grandi narrazioni dell'arte moderna siano passate senza lasciare traccia. Non sono, però, pitture liquide: hanno lessici e grammatiche loro proprie; una loro peculiare coerenza che le rende riconoscibili anche dal più casuale degli osservatori. Convinto che “l'unica qualità duratura nell'arte è una visione personale del mondo”, e volendo dare la più esatta trascrizione della propria “più intima impressione della natura”, Hopper ha guardato all'intera storia dell'arte, ma non ha imitato nessuno; non ha aderito ad alcun programma scritto da altri. Ha trovato un fondamento cui ancorare il proprio lavoro, e si è dato un'etica al cui scrutinio sottoporne i risultati, cercando dentro sé. Dovremmo imitarlo, nella speranza di scoprire una nostra risposta al Senso tragico della vita? Unamuno avrebbe detto di sì. Di certo, come in quella caffetteria del Village durante una notte del '42, ognuno sta solo sul cuor della terra anche oggi, e senza spesso neppure intravedere quel raggio di sole, magari davanti ad uno schermo di computer, a leggere o scrivere queste righe.

 

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