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 Home page > Tribuna Libera > Umberto Eco e le illusioni di un’Italia immobile

Umberto Eco e le illusioni di un’Italia immobile

Il grande semiologo (e tanto altro) sostiene che la nostra epoca abbia i caratteri del Manierismo, e che la modernità sia diventata maniera è indubbio; del moderno si sono conservate e addirittura esasperate le forme, ma si è perso lo spirito. 

L’arte pesta nei suoi mortai concetti vecchi di almeno mezzo secolo, per esempio, e i suoi mercanti/grandi sacerdoti spacciano per novità fondamentali quelle che, spesso, non sono altro che innovazioni tecniche di non troppo conto, mentre forzano gli artisti a far maniera di sé stessi, ripetendo fino all’estenuazione i modelli che hanno incontrato il gusto del pubblico, trattandoli alla stregua di qualunque altro produttore beni di consumo.

Un immobilismo, quello di questo inizio millennio (forse necessario preludio ad una nuova liberazione d’energie; ad un Barocco che ci dirà il tempo quanto sarà fantastico e quanto terribile) che nella società italiana è pressoché totale e ricorda, anzi, più quello dei secoli bui che quello del ‘500. 

Come non pensare che sia Medievale, la paura che abbiamo del futuro? Come non riconoscere per quel che sono le muraglie che tanti vorrebbero innalzare per tener lontani i problemi del mondo (gli stranieri in cerca di lavoro come le merci d’importazione) nella convinzione di non poter far altro che difendersi. Caratteri simili ha il nostro rapporto con i diritti, non a caso spesso associati proprio alla parola difesa. Abbiamo costruito steccati, non necessariamente registrati dalle leggi, per proteggere questa o quella categoria, nella convinzione profonda che il perimetro dei diritti non potesse più espandersi, senza renderci conto che così facendo bloccavamo la nostra società; che fotografavamo l’esistente, senza però tracciare alcun progetto per il futuro. Non ci siamo curati, da un lato, della sostenibilità a lungo termine di quel che avevamo conquistato (o che i nostri padri avevano conquistato per noi), né, dall’altro, abbiamo pensato di provvedere le nostre muraglie di porte che potessero consentire a nuovi soggetti di entrare o uscire.

Non solo; tale è la nostra sfiducia, che reagiamo istericamente non appena qualcuno ci propone di mutare questa situazione. Sappiamo che le cose possono solo cambiare per il peggio e, pur vedendo con i nostri occhi quale prezzo debbano pagare le giovani generazioni alla nostra illusoria sicurezza, preferiamo mantenerci aggrappati al relitto di quel che abbiamo costruito piuttosto che cercare di fare qualcosa di nuovo. Arriviamo, pur di non mettere in discussione le nostre insicurezze (di certezze non ne abbiamo), a raccontarci una pseudo-realtà tanto fantastica da non resistere neppure alla più superficiale delle analisi.

Basta ascoltare i politici che ci ostiniamo a votare per capire di che stia parlano; sentendoli proclamare orgogliosi che questa o quella norma non si tocca, che i diritti acquisiti da questa o quella categoria sono sacri ed inviolabili, parrebbe che l’Italia sia, o sia stata fino ad ieri, una specie di paradiso dei lavoratori. Di che ridere o piangere pensando che i super-garantiti lavoratori italiani era già anni fa (e ancor di più lo sono oggi) tra quelli che lavoravano di più (i primi in tutta l’OCSE per il numero di ore all’anno) per stipendi tra i più bassi d’Europa.

Sono sempre le statistiche, ampiamente disponibili in rete, a denunciare come tale la retorica di politicanti e aspiranti capipopolo; a dire quanto sia immobile, fondamentalmente reazionaria, la nostra società. Si parla di diritto allo studio? Di una pia illusione, sarebbe meglio dire, visto che da noi, secondo una ricerca Eurostat del 2008, riesce a laurearsi solo il 10% di chi non abbia il padre perlomeno diplomato. Un dato che fa addirittura rabbia quando, magari dopo aver sentito qualcuno proclamare “non faremo la fine dell’Inghilterra”, lo si confronta con quello dell’ingiusta, quasi per definizione, Gran Bretagna post-tatcheriana dove si laurea oltre il 40% dei figli di chi non ha titoli di studio.

Discorsi del tutto analoghi si possono fare per tutte le altre statistiche di mobilità sociale. Quella che esprime la correlazione tra il reddito dei padri e quello dei figli, per esempio. Secondo una statistica dell’OCSE solo in Gran Bretagna (e qui forse emerge davvero l’opera di Tatcher) i figli “ereditano” più che in Italia il reddito dei genitori; già negli Stai Uniti (altro paradigma d’ingiustizia sociale) accade meno che da noi, mentre il resto d’Europa è, rispetto al nostro paese, proprio un altro continente. Un risultato, d’altra parte, perfettamente logico se si pensa che, per tornare all’istruzione, secondo Almalaurea il 44% dei figli dei nostri architetti finisce per laurearsi in architettura, come il 42% di quelli dei medici si laurea in medicina; dati propri di una società di gilde e corporazioni, appunto, come dicevo, medioevale.

Di un Medio Evo senza speranze, però. Un dato ancora, per capire quali prospettive offra questo stato di cose ai nostri giovani: se il 41% degli ultracinquantenni intervistati da SWG pensava di aver raggiunto uno status migliore di quello dei propri genitori, solo il 6% dei ventenni affermava lo stesso. E questo nella “meravigliosa” Italia del 2008, prima che arrivasse la crisi a peggiorare tutto.

Crisi che ci sta facendo sbattere il naso contro l’insostenibilità del nostro sistema, visto che le sue palesi ingiustizie non ci sono sembrate motivi sufficienti per cambiarlo; che ci impone di levare gli occhi dal nostro ombelico per tornare a guardare innanzi.

Qualcosa che dobbiamo deciderci a fare noi, in prima persona, senza aspettarci d’essere guidati da chi non può che essere alla ricerca del nostro consenso; da una politica che, anche con i suoi nuovi protagonisti, se questo vorremo, continuerà solo a spacciarci illusioni.

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