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Turchia, bastonare il pensiero critico

Il dialogo a suon di mazzate e che mazze, quelle da baseball, che hanno portato in ospedale lo scrittore Yavuz Selim Demirağ, commentatore in uno dei quotidiani turchi (Ȳenicağ) che resistono all’omologazione governativa, ribadisce l’illegale panorama che il regime dell’accoppiata Akp-Mhp ha stabilito da due anni nel Paese.

 Certo, la politica ufficiale seguirà il suo percorso, così come ha fatto fermare sei presunti aggressori (poi rilasciati) parlerà di teppismo, ma tutti sanno che quella spedizione punitiva non è né isolata né un’iniziativa autonoma. E’ frutto del clima violento seminato dalle più alte istituzioni, a partire dall’ambigua figura del presidente fiero sostenitore dell’equazione avversari e pensatori critici uguale terroristi. Verso costoro tutto è ammesso per ‘amor di patria’. Lo sa bene il leader del partito repubblicano Kılıçdaroğlu, che s’è recato a visitare il ricoverato Demirağ, dopo aver subìto nelle scorse settimane egli stesso un’aggressione, meno violenta solo perché era circondato da guardie del corpo. Se, dunque, in Turchia si picchia il capo dell’opposizione, sicuramente può accadere di peggio a chi esprime ogni genere di pensiero inviso all’attuale ‘padre della Turchia’.

Giornalisti, scrittori, avvocati dei diritti, attivisti kurdi e di sinistra sono da anni obiettivo di quest’escalation che li ha trasformati in cadaveri, detenuti e perseguitati professionalmente e umanamente. Una faida cresciuta nel corso della grande epurazione anti gülenista che non ha risparmiato altre sponde. Ora i magistrati erdoğaniani, non si può non definirli tali visto che chi oggi veste la toga riesce a farlo grazie al placet del presidentissimo, potranno indagare sull’identità politica degli assalitori del giornalista per scoprire se sono militanti dell’Akp, come i pugilatori di Kılıçdaroğlu. Oppure appartengono agli alleati ‘Lupi grigi’ da sessant’anni avvezzi a spedizioni punitive, l’elemento più tenero del loro paramilitarismo diviso fra ideologia panturchista e sostegno della Cia. Ma per quanto mostra la politica turca interna, di strada e di Palazzo, queste differenze sono sbiadite. Ben al di là dell’alleanza elettorale, che offre seggi al partito nazionalista (Mhp) e garantisce agli islamisti dell’Akp quella continuità di potere che non erano più in grado di conseguire in solitudine.

Ciò che preoccupa politologi e analisti è il frutto reazionario di tale miscela. Una deriva fascistoide islamica, diversa dalla stessa matrice conservatrice del rilancio dell’Islam politico di cui Erbakan fu l’ispiratore col Refah Partisi e il successivo Saadet Partisi. Finiva un secolo (1999), iniziava un nuovo Millennio. Erdoğan sindaco di Istanbul e giovane dirigente di quel progetto finiva il galera. Uscitone dava vita, in compagnìa del sodale Gül, al Partito della Giustizia e Sviluppo, realtà politica che cavalcando Islam, liberismo e conservazione proponeva ai turchi il sogno d’un Paese proiettato verso il benessere. All’epoca parlando con tutti, addirittura con la comunità kurda, e pure col “terrorista Öcalan, perché Erdoğan voleva pacificare un popolo su cui governare senza intralci. Ma costruendo il suo personalissimo potere, oltre a un regime tutt’altro che democratico, i suoi orientamenti sono mutati sino ad additare nemici ovunque abbia trovato idee discordanti, anche fra i sodali. Da qui due princìpi: incarnare la vera Turchia per i veri turchi e ispirare quest’ultimi nel percorso da seguire. Demirağ, che in tivù osa esprimere pensieri diversi, deve capire che non può farlo. E la lezione deve servire a ognuno. 

Enrico Campofreda

 

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