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Troppi avvocati? La soluzione non è il numero chiuso

Torna periodicamente in primo piano il dibattito sui problemi dell'avvocatura. Una delle difficoltà maggiori a rendere efficiente la professione sembra essere l'alto numero degli avvocati rispetto alle reali esigenze. Purtroppo le soluzioni a tale presunto problema non sembrano essere convincenti. Vediamo perché.

Aula universitaria

Avvocati ce ne sono troppi e molti di essi fanno fatica con le spese, che fare? Periodicamente torna a farsi sentire la voce di coloro i quali vorrebbero limitare l’accesso alla professione. Il problema esiste ma a rendermi perplesso sono le soluzioni che emergono ogni volta che si accende tale discussione. Vediamole.

Mettere il numero chiuso alle facoltà universitarie di giurisprudenza. La strada del numero chiuso a giurisprudenza e, in generale all’università è, a mio avviso, sbagliata. Non si può pretendere di capire attraverso un test con domande prive di alcun senso se una persona (spesso diciottenne o poco più) sarà un bravo studente e un bravo professionista. E’ proprio lo studio, l’esperienza e la conoscenza a renderti capace e a migliorare nella vita e nella professione (o addirittura a cambiarla). Se prima non ti permettono di studiare come si fa a capire se sarai portato per un determinato mestiere?

Rendere più difficile l’esame di abilitazione. Anche questa è una soluzione assurda. Già si tratta di un esame discutibile per forma e metodo, figuriamoci una riforma a quali peggioramenti possa portare. La realtà è che a consentire di lavorare dovrebbero bastare l’università e la pratica sul campo. Ogni altro esame volto a selezionare, o meglio a pretendere di selezionare non è alla base giusto perché spesso basato su criteri di disuguaglianza. Pertanto credo che l’unico agente selettivo debba essere il mercato. Toglierei l’esame per l’abilitazione forense. Sarà il dominus a certificare la pratica, dopodiché si diventa avvocati. Lì si confronteranno le capacità di ognuno, sul mercato.

Obiezione: ma se si lascia libero accesso a studio e professioni, come farà uno a 40 anni a reinventarsi un mestiere se scopre di non farcela?

E’ un falso problema. La nostra presunta incapacità di declinare le nostre conoscenze ed esperienze ad altre opportunità professionali oppure addirittura a crearcele, anche in età non giovanissima, dipende solo dal fatto che siamo stati sempre educati a ragionare per schemi e modelli. E qui entra in gioco la debolezza del sistema di istruzione e in particolare quello universitario.

Nel caso specifico la facoltà di giurisprudenza apre porte a diverse attività professionali e lavorative quindi nel caso una persona dopo la laurea non riesca a competere sul mercato come avvocato, può applicare le proprie capacità in altre mansioni. E’ però difficile individuarle, perché? Perchè le facoltà di giurisprudenza sono impostate in modo processualistico, mnemonico e schematico (almeno la gran parte). Invece è la cultura generale e la mente aperta che ti permettono di declinare le proprie conoscenze secondo il proprio talento anche in un momento successivo all’esercizio di una professione specifica. Un lavoro si può anche inventare (o cambiare) ma bisogna avere testa. Lo studio è ragionamento aperto non chiuso. Purtroppo abbiamo un problema di qualità del nostro sistema universitario e, ahimè, in pochi comprendono quel famoso detto “non si finisce mai di imparare… o meglio… di studiare”. Troppi pensano che una volta imparato un mestiere non sia necessario più aprire libro.

Io credo che una persona sia sempre in tempo a scegliere, sia che abbia 18 anni, sia in corso di studi, sia di cambiare professione a 40 anni. L’importante è che sia una scelta matura e libera, non condizionata da regole ingiuste.

Ancora una volta la soluzione sta, quindi, in una scuola aperta e non in una selezione chiusa, diseguale, ingiusta e ingiustificata. Non siamo l’Inghilterra, la Danimarca o la Norvegia, direte voi, ma almeno proviamo a cambiare lasciando da parte le solite “soluzioni del cassetto” (quelle pronte all’uso perché non determinano grande attività intellettiva) dettate più che altro da una visione egoistica della società talmente intenta a conservare il proprio piccolo status quo individuale che non riesce a vedere le alternative per rendere possibile un vero cambiamento che abbia come obiettivo il bene delle prossime generazioni.

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