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 Home page > Attualità > Cultura > Traiettorie Sociologiche. Kill Feel: La pazienza del Caso

Traiettorie Sociologiche. Kill Feel: La pazienza del Caso

di Adolfo Fattori 

 

Evidentemente pian piano anche fra i nostri scrittori si fa strada la pratica di una scrittura esplicita, diretta, tagliente. E l’attitudine – sicuramente interiorizzata, ma finalmente anche esibita – ad usare registri linguistici “cinematografici”, attenti alla compattezza, alla velocità, alla scorrevolezza. E, insieme a questa, l’esplorazione di una dimensione “fantastica”, paradossale, cortocircuitale del racconto, cui si presta molto bene il formato del thriller. Come in Kill Feel, un racconto lungo scritto da Pietro G. Mavrulis. Che, scritto da un narratore non professionista, induce molte più riflessioni di quanto possa sembrare a un primo sguardo.
 
In breve, la trama, anzi, una possibile trama.
I personaggi sono due: Remo, Linda.
Remo è un bounty killer, un sicario a pagamento; Linda un’impiegata in un ufficio, forse una ragioniera, o una segretaria d’azienda. Sono accomunati – senza saperlo, perché non si conoscono – da una storia simile, che per Remo appartiene ad un tremendo passato, per Linda ad un altrettanto insopportabile presente.
 
Remo è stato a lungo abusato dal padre, durante la sua infanzia. Linda è molestata dal suo capo, da adulta. Ma a queste somiglianze, si aggiunge una sostanziale differenza: se l’uomo è diventato un distaccato assassino, un professionsita della morte, tanto da arrivare ad uccidere il padre per liberarsi dalla schiavitù dei ricordi, Linda, pur progettandolo, non riuscirebbe ad assassinare il suo capo. Ed è qui che interviene il Caso, che li fa incontrare nell’armeria dove Remo è andato per rifornire i “ferri del mestiere”, Linda – fra mille imbarazzi – per acquistare quello che spera sia lo strumento della sua liberazione.
 
Il Caso è equo, come ricorda a Batman il personaggio di Due Facce ne "Il cavaliere oscuro" di Christopher Nolan (2008) – e livella le vicende umane, basta dargli tempo:
 
… il mondo è spietato e l’unica moralità in un mondo spietato è il caso... imparziale, senza pregiudizi... equo.
 
In questa circostanza gli basta che i due si incontrino, si sfiorino, scambino due parole, perché si attivi. Perché dopo che Linda – incapace di fare del male – avrà fallito, il suo capo incontrerà il suo destino per mano di Remo, pagato da qualcuno che non è Linda, che ritroverà la sua pace in perfetta innocenza, mentre il killer – almeno per una volta – avrà fatto opera di profilassi sociale attraverso la funzione di un Caso che agisce da agente di una vendetta metafisica, etica, tesa a ristabilire un ordine cosmico che è stato incrinato.
O, per qualcun altro, meno scettico e più metafisico, non è il Caso ma il Fato, o il Karma, a intervenire nelle vicende dei due personaggi, imponendo agli eventi di viaggiare in una certa direzione.
 
Ora, la sociologia contemporanea che si occupa dell’identità e dei percorsi biografici degli individui dell’epoca che viviamo è concorde sul senso di spesamento, di incertezza di costui: rispetto al futuro del proprio percorso, alla stabilità del suo Sé, alla gestione del proprio “progetto di vita”. E non si tratta semplicemente, superficialmente, solo dell’impatto con la crisi economica e sociale che stiamo attraversando – e che forse molti di noi, dopo anni di benessere, pensavano fosse diventata un’eventualità impossibile, da relegare nel passato della modernità.
 
Si tratta di una crisi più profonda, più radicale, connessa alla riorganizzazione sempre più radicale del nostro modo di percepire il mondo, la nostra vita, il senso della nostra esistenza. Il processo di demagizzazione che Max Weber (1973) descriveva ormai circa un secolo fa sta raggiungendo il suo culmine, e può lasciarci disorientati, smarriti.
 
Ci spinge comunque a cercare un significato nelle cose, o almeno nelle nostre biografie, facendocele riscrivere continuamente, inducendoci a narrarcele, nella speranza, forse, che in questo modo, ricostruendo il nostro passato, possiamo immaginare – se non un futuro – almeno un presente solido.
 
È in questo spazio che si inseriscono quei momenti della nostra vita passata cui, a posteriori, decidiamo di assegnare un senso particolare: eventi che si sono dimostrati di svolta come matrimoni, nascita di amicizie, trasferimenti – anche, a volte, “atti mancati”, cose evitate, non fatte. Sono quelli, come scrive Anthony Giddens (1999), che dopo considereremo “momenti fatali”, nella nostra vicenda personale.
 
Questo, in quella mescolanza di realismo e fantasia che fa da cifra alla nostra attitudine a raccontarci a noi stessi, a metà fra immaginazione narrativa e registrazione neutrale delle nostre vicende.
 
Anche la fiction – letteraria, cinematografica – riflette questa sfera di fenomeni, e spesso si interroga, direttamente o indirettamente, consapevolmente o meno, sul senso delle vicende umane. Con le armi che ha, che sicuramente sono più flessibili e potenti della semplice memoria e della speranza marcate dal realismo del disincanto. Ne abbiamo esempi nel cinema di fantascienza, come in Next (2007), o in Paycheck (2003), o in modo più indiretto in Shutter Island (2010), Memento (2000). O ancora, del tutto disincantato e terminale come in Mystic River (2003) e in quel piccolo capolavoro che è La jetée (1962).
Torniamo a Kill Feel: scrivevamo di una trama “probabile” perché il testo è organizzato per “ipotesi” invece che per “capitoli”, che ne fanno intuire la dimensione combinatoria, la possibile permutatività, in un mondo che appare come fluttuante, instabile, disancorato da uno scorrere del tempo riconoscibile, ed in cui anche i luoghi sono indefiniti, staccati da un ambientazione particolare. Una storia che potrebbe essere avvenuta, o potrebbe avvenire, ovunque o in nessun luogo.
 
Ed è proprio questa scelta di organizzazione del testo a rafforzarne (quasi una riflessione su Pulp Fiction [1994], un debito occulto pagato a Quentin Tarantino attraverso il titolo del racconto, che rimanda ad un altro dei suoi film?) la natura cinematografica: scene, spezzoni che sembra di vedere scorrere anche sul proprio schermo mentale, e che mostrano, come a cinema, il dipanarsi delle vicende intrecciate (o incrociate, o alternative?) dei due protagonisti, mentre si sviluppano sulla pagina scritta.
 
Un racconto di coincidenze, di incontri fortuiti, che però possono avere un unico esito: quello del finale, come è giusto, e come è però (im)prevedibile.
 
Ma questo può avvenire solo nel racconto, o a cinema. A soddisfare l’infantile, irrazionale speranza che tutti coltiviamo per i nostri destini: che alla fine per noi si avveri, grazie alla fede nelle coincidenze, l’augurio ormai stereotipato, uno dei cascami della vulgata new age ibridata di psicoterapia, sintetizzato dalla frase Vedrai, andrà tutto bene.
Speranza a cui risponde, con la consueta, sferzante, luterana disinvoltura, James G. Ballard (1991):
 
La nostra vita è percorsa sotterraneamente da compiti già assegnati: le coincidenze non esistono.
 
Insomma, ci governa Ananke, con le sue figlie, le Moire.
Possiamo solo sperare che questo assegno in bianco che dobbiamo onorare non sia troppo oneroso.
 
 
Letture:
Ballard J. G., La mostra delle atrocità, Rizzoli, Milano, 1991.
Giddens A., Identità e società moderna, Ipermedium, Napoli, 1999.
Weber M., Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1973.
 
Visioni:
Eastwood C., Mystic River, USA, 2003.
Marker C., La jetée, Francia, 1962.
Nolan C., Memento, USA, 2000.
Nolan C., Il cavaliere oscuro, USA, 2008.
Scorsese M., Shutter Island, USA, 2010.
Tamahori L., Next, USA, 2007.
Tarantino Q., Pulp Fiction, USA, 1994.
Woo J., Paycheck, USA, 2003.

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