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Torpignattara: un diciassettenne uccide un pachistano

E va in scena il razzismo.

No, non quello degli abitanti del quartiere, che pure hanno inscenato una manifestazione in favore dell'uccisore. “Una disgrazia non ti priverà della libertà”, recitava uno dei loro striscioni, ma su quello stesso telo era pure scritto proprio “no razzismo” e c'era sì una svastica, ma sbarrata da una grande croce rossa, per esprimere il rifiuto delle idee che rappresenta.

Il razzismo mio, piuttosto e prima di tutto. Appena saputo di questi fatti, e senza conoscerne alcun dettaglio, ho subito immaginato che quel ragazzo, che pure non avevo mai visto e di cui nulla sapevo, fosse un neonazista, con troppi muscoli e poco o nulla nel cervello. E mi sono subito dipinto Torpignattara, in cui non ho mai messo piede, come una canonicamente disperata e violenta periferia metropolitana. E ho trasformato i suoi abitanti, lì in piazza a dimostrare la propria solidarietà ad un ragazzo che dopo tutto, nonostante tutto, è cresciuto in mezzo a loro, in un branco di buzzurri pronti, ad altre latitudini, ad iscriversi al Ku Klux Klan...

Il razzismo implicito nei titoli di giornali e negli articoli dei loro giornalisti. Titoli che suonano come quello che ho scelto io. In cui, l'unica cosa davvero importate della vittima, prima del suo nome, della sua età, del suo essere un barbone (qualcuno lo ha chiamato clochard; oh, insopportabile poesia del politicamente corretto) è la sua nazionalità. Articoli tutti scritti all'indicativo, in cui il ragazzo è definito un massacratore, senza nessuna delle formule dubitative che sono riservate ai potenti fino alla sentenza di Cassazione e oltre.

Le cose, ad ogni modo, pare che siano andate così. A mezzanotte, tra il 18 e il 19 di questo mese, la vittima, Khan Mohamed Shandaz, barcollava visibilmente ubriaco per via Ludovico Pavoni, nel quartiere romano di Torpignattara, lanciando urla e disturbando i passanti al punto che qualcuno di loro chiamato il 112. Quando i carabinieri sono arrivati, purtroppo, hanno trovato Kahn Mohamed Shandaz a terra, morto, circondato da una capannello di persone. Accanto lui, tra loro, il suo uccisore. Da quel che i militari sono riusciti a ricostruire, pare che l'ubriaco gli avesse sputato in faccia e che il ragazzo per tutta risposta, lo avesse preso a pugni. Uno solo dice il giovane; numerosi scrivono i carabinieri nel loro rapporto.

Una tragedia, comunque, in cui un uomo di soli 28 anni ha perso la vita e in cui un diciassettenne la vita rischia d'essersela rovinata. Un dramma umano come ne accadono ogni giorno e che poteva avvenire ovunque. Solo umano, però, in cui è difficile scorgere elementi politici, razziali, religiosi o culturali. Quelli vi sono stati infilati a posteriori. Dai mentecatti, fortunatamente pochi, che in rete hanno fatto dell'uccisore un paladino dell'italianità. Da tutti noi, che non possiamo proprio fare a meno di trasformare qualunque episodio coinvolga uno straniero in un paradigma o in una metafora.

Razzisti e non, uniti nel dimenticare che quando due persone di “razza”, religione o cultura diversa si amano o di odiano, fanno assieme un figlio o si uccidono, prima di rappresentare o simbolizzare qualcosa sono, appunto, due persone.

P.S. “Il mio campanile è l'uomo”, ha scritto recentemente il poeta Giuliano Natali. Considerare solo dopo le differenze, le appartenenze, le identità etnico-culturali, e mettere prima al centro della nostra attenzione l'uomo, con le sue gioie e i suoi dolori, i suoi sogni e le sue paure, è l'unico modo di costruire una duratura convivenza in una società che non può più essere, ammesso che lo sia mai stata, unirazziale e monoculturale. Dobbiamo diventare, insomma, campanilisti come lui.

P.P.S. “A incontrarsi o a scontrarsi non sono culture, ma persone. Se pensate come un dato assoluto, le culture divengono un recinto invalicabile, che alimenta nuove forme di razzismo. Ogni identità è fatta di memoria e oblio. Piú che nel passato, va cercata nel suo costante divenire”. Lo scrive Marco Aime, antropologo dell'Università di Genova, nel suo “Eccessi di culture”. Un libro che mi permetto di consigliarvi. 

Foto: Wikimedia

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