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Togliatti e la guerra di posizione

Nel 1945, il Pci usciva da un lungo periodo di clandestinità e non poteva affatto esser certo di non dovervi ritornare in breve tempo.

Il subitaneo sopraggiungere della guerra fredda rafforzò il timore di una evoluzione negativa della situazione politica, anche se la conferma definitiva venne con il voto del 18 aprile 1948: il fronte Popolare ottenne solo il 31% dei voti e la prospettiva di ribaltare i rapporti di forza diventava un lontanissimo punto all’orizzonte. Soprattutto gli ex partigiani e larghe fasce di bracciantato meridionale, caratterizzate da un persistente sedimento anarchico, premevano per una spallata rivoluzionaria, spesso dando luogo a fenomeni di violenza politica e persino ad insurrezioni locali.

Sin dal 1944 Togliatti aveva scelto una strada diversa, collaborando momentaneamente con il governo del Re, e dopo la fine della guerra, operò per mantenere l’intesa di governo fra i partiti del Cln, nella speranza di farne una formula di lunga durata, speranza alla quale alla quale non esitò a sacrificare l’azionista Parri, nel novembre 1945, per far insediare il democristiano De Gasperi a capo del governo, e per la quale non esitò a votare l’inserimento del Concordato nella Costituzione.

Nemmeno la rottura del 1947 valse a mutare l’orientamento ostile ad avventure insurrezionali e, persino sulla lettiga che lo portava in ospedale dopo l’attentato di Pallante, raccomandò a Scoccimarro presenti “State calmi, non perdete la testa”.

Ad ammonire era anche l’esito atroce della vicenda greca, dove i comunisti caddero nella trappola del Re e degli inglesi ed accettarono una impari lotta, che sfociò in una guerra civile, in cui perirono 80.000 persone, in massima parte comunisti.

Aver evitato una disastrosa avventura insurrezionale fu certamente il maggior merito storico di Togliatti, questo gli va onestamente riconosciuto. Ma questo non vuol dire che la sua azione politica sia esente da altre critiche, come se l’unica alternativa alla lotta armata fosse la politica ultra moderata che il Pci scelse. Togliatti, conscio dell’impossibilità di un assalto frontale, aveva ideato una strategia di “guerra di posizione”, che sviluppava l’intuizione gramsciana della conquista graduale delle “casematte” avversarie, scelta necessaria in un paese come l’Italia così diverso dalla Russia. In Italia non c’era un “palazzo d’inverno” conquistato il quale si conquista il potere.

Questo era sicuramente esatto, ma Togliatti caricò la lezione gramsciana di un di più di moderatismo, che non era nell’originale, come dimostrarono il voto sul concordato e la lunga insensibilità su quei temi che avrebbero potuto irritare la Chiesa cattolica, l’aver lasciato cadere la proposta di una patrimoniale e del cambio della moneta; l’abbandono dei “comitati di gestione”, l’ accettazione della piena restaurazione padronale in fabbrica, la conseguente moderazione rivendicativa imposta alla Cgil, il non aver mai messo in discussione l’assetto amministrativo dello Stato; ecc.).

E qui si pone il problema dell’alternativa rappresentata da Secchia. Una vulgata assai pedestre, ha costantemente presentato questo dirigente comunista come l’insurrezionalista filosovietico che contrastava Togliatti per “fare la rivoluzione”. In realtà, Secchia -che pure era molto ideologizzato e fece non pochi errori- era un politico realista e per nulla propenso ad avventure, ma chiedeva una politica più intransigente e minori concessioni all’avversario. Quanto al rapporto con l’Urss, Secchia fu meno stalinista di Togliatti e forse in un solo momento Mosca pensò a lui come ad un preferibile segretario del Pci (intorno al 1950 quando si pensò di spostare Togliatti a capo del Cominform) ma ciò non è neppure sicuro. Prima e dopo quel momento, l’interlocutore di Mosca fu sempre Togliatti.

In questo quadro vanno inseriti i temi della doppiezza togliattiana e della cd. “Gladio Rossa”. Sulla doppiezza ricordiamo che fu proprio Togliatti ad usare per primo quella espressione per dire che nel partito c’era una certa atmosfera per la quale molti militanti pensavano che, dietro la proclamazione della linea legalitaria e democratica, si celasse un vero piano per prendere il potere al momento opportuno e che occorreva “liberarsi da questa doppiezza”.

Dopo, per una ironia della storia, si affermerà una vulgata per la quale sarebbe stato Togliatti a coltivare la doppiezza. Ad alimentare questa idea ci fu la leggenda lungamente coltivata di un “piano K” dei comunisti per prendere il potere. Una balla recentemente ripresa anche, ma che non ha mai avuto un pur minimo riscontro documentale e la cui ricerca, semmai, è costata un esilarante infortunio a qualche incauto storico che ha preso per buono un evidente falso (probabilmente attribuibile a Luca Osteria, noto ex informatore dell’Ovra passato all’Ufficio Affari Generali e Riservati di epoca repubblicana).

In realtà, Togliatti non ha mai pensato ad una conquista violenta del potere e la Cd “Gladio Rossa” cioè l’apparato militare clandestino del partito esistito sino al 1973, che esponenti e studiosi del Pci si sono sempre inutilmente affannati a smentire che esistesse, è effettivamente esistito, ma con compiti essenzialmente difensivi e di deterrente verso una eventuale messa fuori legge.

In primo luogo Togliatti era caratterialmente un uomo freddo calcolatore e prudente sino all’eccesso e così lo descrivono quanti lo hanno conosciuto, da Giancarlo Pajetta a Rossana Rossanda, da Umberto Terracini a Luigi Longo e il lungo soggiorno moscovita servì a renderlo ancora più guardingo e cauteloso (d’altro canto, nella Russia staliniana essere poco prudenti poteva avere conseguenze spiacevolissime). Peraltro egli non mostrò mai propensioni insurrezionaliste e, se fu favorevole all’insurrezione del 25 aprile, occorre considerare che ciò accadde nel doppio contesto di una guerra civile all’interno di una guerra fra grandi potenze.

In secondo luogo, Togliatti ebbe istruzioni precise da Stalin di non cercare di prendere il potere e tantomeno per via rivoluzionaria; la successiva formazione delle “zone di influenza” fu il suggello finale su tutto questo.

In terzo luogo, Togliatti era un convinto elitista ed è per lo meno dubbio che (al di là di articoli e discorsi d’occasione) pensasse alla rivoluzione come movimento violento dal basso, quanto, piuttosto, come conquista di settori di classe dirigente. Il suo operato durante la guerra civile spagnola testimonia a sufficienza quale fosse la sua reale concezione della rivoluzione e della presa del potere.

La strategia togliattiana puntava ad inserire il Pci in una coalizione di governo della quale diventare il perno, esattamente come nella guerra civile spagnola, nella quale non esitò a reprimere con la forza le ali di estrema sinistra che puntavano ad una rivoluzione sociale.
Ed a questo si collegava anche la sua concezione del partito come centro reale della strategia: il partito era gladius Dei, il vero demiurgo della storia e l’approssimarsi della rivoluzione era direttamente connesso all’avanzata del partito nel sistema politico.

Scontata l’impossibilità di conquistare il potere a breve termine tanto per via insurrezionale quanto per via elettorale, la strategia della guerra di posizione prevedeva un forte radicamento sociale del partito che conquistava una posizione dopo l’altra (enti locali, sindacati, movimento cooperativo, ambienti culturali, movimenti femminili, associazioni di ceto medio, case del popolo ecc.) nella società prima ancora della presa del potere politico, senza escludere neppure manovre entriste nei partiti alleati-satelliti. Una manovra di aggiramento del blocco di sistema, che, però, richiedeva una grande moderazione: occorreva non spaventare i ceti medi, non spingere i ceti proprietari verso una nuova avventura fascista, dare del Pci l’immagine rassicurante della “grande forza tranquilla”, che non ha alcuna fretta di conseguire i suoi obiettivi, ragionevole e disposta alla mediazione anche al di là delle aspettative dell’avversario.

Pertanto, il Pci non fu affatto all’avanguardia di una politica riformista, nella quale fu spesso scavalcato dal Psi. D’altra parte Togliatti concepiva la politica essenzialmente come esercizio di finezza cui, però, non corrispondeva una particolare sensibilità l’autonomia del sociale: la società andava occupata, e i movimento sociali andavano portati sotto la direzione del partito più che ascoltati o seguiti (quel che il capo del Pci avrebbe sprezzantemente definito “codismo”).

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