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Testiomoni di giustizia 03 - Rosa cerca giustizia

Vivono in clandestinità dimenticati dallo Stato. Chiedono solo il rispetto dei patti.
Sono i testimoni: la storia di una donna che ha visto la propria vita cambiata dopo aver deposto in un’aula di tribunale 

di Pietro Orsatti e Vincenzo Mulè


Sedotti e abbandonati. Dallo Stato. Tornano ora a urlare la propria rabbia. Sono i testimoni di giustizia, non pentiti, quindi persone che volontariamente hanno deciso di recarsi dalla polizia e poi in tribunale per denunciare fatti di cui erano stati, appunto, testimoni. Un caso esploso, anche sulle pagine di left, a fine della primavera scorsa, con le vicende dell’imprenditore Pino Masciari e in seguito di Ulisse, Donatella Aloisi e Piera Aiello. Tutti casi che mostravano come l’amministrazione del delicato ruolo dei testimoni fosse quantomeno improvvisata, spesso disattenta, a volte disastrosa. E non stiamo parlando di migliaia di persone, ma di un gruppo esiguo: 72 testimoni in tutto da tutelare e aiutare a ricrearsi una vita e molto spesso una nuova identità. Non si raggiungono le 300 persone, comprese i familiari, di persone sottoposte al “programma”. La relazione sui testimoni di giustizia approvata lo scorso febbraio dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare auspicava «un cambiamento radicale della gestione dei testimoni» per «migliorare l’efficacia di un modello che si presenta non più adeguato alla specificità della figura del testimone». Il documento auspicava «un mutamento di mentalità, una diversa filosofia nell’approccio alla figura del testimone» visto «non come un peso ma come una risorsa: un modello positivo che incarna una scelta di legalità in aree ad alta densità mafiosa». Il testo auspicava una maggiore attenzione alla selezione e alla formazione del personale preposto alla speciale protezione e la creazione di un organismo che assicuri efficacia a tutto il comparto di protezione.

Va contrastato un modus operandi basato sulla convinzione che «l’elargizione delle rilevanti somme di denaro assegnate ai testimoni possa risolvere qualsiasi tipo di problema, assumendo una sorta di significato liquidatorio rispetto a ogni obbligo dello Stato. Al testimone, in pratica, vengono forniti soldi e beni materiali, dopodiché questi deve mimetizzarsi con l’ambiente circostante. Un’inchiesta promossa da un comitato interno alla Commissione ha invece rivelato come, dopo un momento di assistenza iniziale, il teste viene « abbandonato » in balia di se stesso e delle sue esigenze familiari, lavorative e sociali. Il ministero dell’ Interno, in particolare il sottosegretario Mantovano con delega ai collaboratori e testimoni di giustizia, si ritrova a gestire per la seconda volta, dopo aver ricoperto lo stesso incarico nello scorso governo Berlusconi, la patata bollente dei testimoni di giustizia. E la parentesi del governo Prodi non sembra aver mutato prassi, modi e soprattutto ingiustizie. E oggi a raccontare la propria storia è un’altra testimone, Rosa. Diciassette anni fa assieme ai suoi familiari ha denunciato i clan della ’ndrangheta: «Prima delle stragi in Sicilia, della morte di Falcone e Borsellino, le istituzioni, la polizia, i carabinieri, sembravano disinteressarsi di quello che succedeva nel nostro territorio. Passava inosservato un omicidio. Ma dopo quei fatti terribili gli inquirenti cominciano a rivolgersi alle famiglie, in particolare a chi aveva avuto qualche morto nella guerra fra i clan, cercando qualcuno disposto a testimoniare. Decidemmo, in particolare mio padre, di testimoniare. Uno dei miei fratelli era entrato a far parte di una banda e fu ucciso. L’altro, estraneo totalmente ai fatti e ai clan, viveva e lavorava a Perugia. I clan mandarono qualcuno a ucciderlo. Mio padre decise di rivolgersi allo Stato. Non c’era stata giustizia per i suoi figli».


È così che racconta, fredda, distaccata, una decisione e una tragedia che cambieranno definitivamente la sua vita e quella dei suoi cari. Testimone “in cerca di giustizia”. Giustizia non tanto per i due fratelli uccisi, oggi, quanto da quello Stato che lei e la sua famiglia hanno aiutato rinunciando alla propria vita pur di testimoniare. «Io avevo la mia vita. Non vivevo neanche in Italia. Ero stata appena assunta a Parigi presso Eurodisney. Tornai in Calabria per testimoniare. La mia vita non fu più la stessa. Ci trasferirono in Abruzzo e ci fecero firmare un accordo - prosegue Rosa -. Era lo stesso documento che firmavano i pentiti. Ancora non si faceva distinzione fra pentiti e testimoni. Prevedeva tantissime limitazioni. Ci si impegnava a non commettere più altri reati – come se li avessimo commessi - a parlare solo con le forze dell’ordine, a non lavorare per non essere costretti a dare le generalità, ad avere contatti solo con quelli del servizio. Ci promisero che però questa situazione sarebbe durata solo pochi mesi, poi loro ci avrebbero dato un’attività lavorativa, garantendo un inserimento nel contesto sociale della nuova città dove eravamo destinati ad andare a vivere e una nuova identità. Ci ritirarono i documenti e ce ne diedero di falsi. Facilmente individuabili. Ogni volta che ce li chiedevano scattavano tutti gli allarmi possibili e saltava la nostra copertura». Dopo quattro anni i processi per cui la famiglia di Rosa testimonia terminano. Un ergastolo e due condanne a 6 e 8 anni per due suoi cugini che appartenevano al clan che aveva ordinato l’uccisione dei fratelli. E con la fine dei processi arriva anche la fine del programma di protezione testimoni. Nonostante che il pericolo allora, come oggi, sia ancora enorme. Risultato? Non solo si ritrovano senza copertura, senza lavoro, senza la possibilità di alienare i propri beni (terreni e alcuni immobili) per poter sopravvivere, senza il contributo di un milione e ottocentomila lire per cinque persone, ma arriva anche lo sfratto esecutivo dalla casa in affitto. E cosa fa lo Stato? Manda la forza pubblica per renderlo esecutivo. Intanto il padre di Rosa si è ammalato di Alzheimer. E nel condominio (realtà che non è il massimo della discrezione…) non arrivano solo poliziotti o carabinieri a eseguire lo sfratto, ma perfino un’ambulanza per trasportare il malato in qualche nosocomio e un camion per portare via i mobili e stiparli in qualche magazzino. Il risultato è che salta ogni residua copertura, e che solo il buon cuore degli uomini in divisa impedisce che la famiglia si ritrovi per strada. Perché disobbediscono agli ordini. Dopo una serie di ricorsi, solo un anno e mezzo fa, il contratto di casa viene rinnovato per quattro anni. Ma la scena delle forze dell’ordine in assetto da “sgombero” si ripete più volte.

E intanto la famiglia di Rosa come vive? «Lo Stato ha comprato solo una piccola parte dei beni che avevamo lasciato in Calabria. Per un valore di 200.000 euro. Il resto è ancora lì e non possiamo certo andare noi al paese a seguire la trattativa. Ci avevano garantito che avrebbero comprato tutto il patrimonio, ma ancora nulla. Poi ci hanno assunto al ministero, a me e mia sorella, ma con contratto a termine. Che dopo due anni non è stato rinnovato. Viviamo con la pensione di mia madre e con quella di invalidità di mio fratello, fra due anni e mezzo abbiamo lo sfratto e io e mia sorella siamo entrambe laureate e disoccupate». E cosa chiedete? «Ci hanno fatto firmare il documento di uscita dal programma con la promessa di lavoro e di acquisto dei nostri beni. Ma non abbiamo avuto nulla se non in minima parte. Chiediamo che lo Stato rispetti il “contratto”». Ma il “contratto” in questione, per ragioni di sicurezza (di chi, visto che Rosa e i suoi vivono sì fuori dalla Calabria ma con la propria identità?) non è stato consegnato in copia ai testimoni. Ormai i funzionari del “servizio” e del ministero si negano perfino al telefono quando Rosa li chiama per sapere se ci sono novità di qualche genere. E sulla politica il giudizio è ancora più spietato: «Ci sono due documenti approvati all’unanimità sulla condizione dei testimoni di giustizia. Uno di questi era stato fortemente voluto dall’attuale sottosegretario Mantovano. Quando prese la carica per la prima volta, dopo aver assunto una posizione molto chiara verso di noi, mutò improvvisamente. Quando gli chiedemmo spiegazioni disse testualmente “Con gli anni le persone cambiano”». Un po’ come la percezione del testimone, passato nel breve giro di un lustro da cittadino modello a clandestino difficile da gestire. 

left 41, 10 ottobre 2008

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