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Terra nostra, in ricordo di Pino Daniele

 Si chiamava Pino Daniele, non solo lui, il cantante, ma l’album della vita. Dove c’è tutto, sebbene nella vita si cambi, però senza tradire: le radici, l’origine, la melodia, l’ispirazione, la voglia d’essere se stessi senza egoismi, grazie alle contaminazioni che rafforzano, alle mescolanze che fanno crescere. Metteva poesie in musica, come altri certo, scardinando però stereotipi, facendo riemergere ritmi ascosi che il ventre di Napoli serba e restituisce come un’eruzione. Lui impastava quella lava sonora insieme ad altri Efesti in una fucina diventata laboratorio e palcoscenico. Dolce armonia ed esplosioni di gente e natura, quello stare vicini fra mille strilli attorno, la difesa amorosa che preserva da cadute e salite.

Aveva ventitre anni Pino Daniele quando creava questo monumento auto agiografico, era poco più che un ragazzo e un grande artista, non sappiamo quanto se ne compiacesse, probabilmente non al di là del costume dei numerosi frequentatori di palcoscenico, naturalmente un po’ narcisi. Se lui lo era, non lo mostrava, mettendo in prima linea la fatica del lavoro altrui che i suoi pezzi narravano. E quello personale e di gruppo, perché la collettività di Napoli Centrale (la band d’esordio che lo scoprì) la trasferiva con la stessa gente (il gigante Senese in primis) nei successivi progetti di sound.

Guardando al popolo della tradizione partenopea che cammina sotto al muro, prende cauce pe dinto ‘e cianche e sin da bambino s’è sentito urlare uhè levati dai piedi! l’album in questione conferma la folgorazione dell’esordio. Il lirismo d’una terra che è propria ma di tutti, è mescolanza e non frontiera, accomuna e abbraccia perché chiunque abbia il mare conosce quel che succede, è abituato alla bocca salata - sicuramente non solo per la brezza - porta la sua croce e sa d’essere fesso e contento perché col mare si ha tutto e niente.

Fatalismo verghiano? Forse, ma non immutabilità perché quella follìa esaltata che è anche determinazione, magari un po’ ribellistica alla Masaniello, ribolle nelle vene. Pino la respira, la sente, la fa sua e l’esalta. Senza remore, fuori da conformismi di condanna o dal compassato lasciar vivere. Perché ‘o buono guaglione Teresa, vuole e ha diritto d’essere una signora, nessuno deve dirle niente, nemmeno la stradale quando cammina coi tacchi a spillo e grida “so’ normale”. Normalità del vivere, lottare, sperare e cambiare. Un riscontro che ci dev’essere per non veder sviliti i progetti, perché se ti ritrovi al collocamento e sei venduto per poco e niente, finendo a lavorare sulla tangenziale con le mani rosse che ti fanno male, quanto puoi durare? Così potresti essere allegro, ma ti senti già vecchio…

Tutto ciò Daniele lo viveva col cuore, lo leggeva negli occhi dei coetanei ventenni disoccupati o male occupati da politici e camorra. E quell’intimismo che, come le lacrime sfuggite senza volerlo, ti fanno sentire nu criaturo ca nun po’ fa’ pipi e ripara dal mondo sporco, è solo un rifugio, non una fuga. Una voglia d’essere allegri, magari con lo spinello in bocca, non per cercare l’oblìo.

Il desiderio di lotta esiste, è il riscontro che manca, nel Sud come nel Nord a più d’una generazione. Così il lamento di chi cerca comprensione, ammettendo i limiti delle illusioni di viaggi e autostrade che m’hanno fottuto con la confessione di non credere più perché si torna a casa morti di fatica, risulta una piccola ma profonda orazione civile. Che risorge con l’unica possibilità, l’unica: quella di stravolgere il mondo, di cambiarlo e credere. Credere nella Rivoluzione proprio se vesti o cazone rutto ed ‘e ‘mmane te fanno male. Così il vento, quello che scioscia e rump’e fenestre, è la presenza naturale e metaforica che fa volare malinconie e dubbi che l’uomo comune e l’intellettuale possono riscontrare sul destino, l’impegno, le finalità dell’esistenza. Daniele ha vissuto altri anni di creatività e successi, ricevendo e pagando scotti dalla macchina spettacolare. Eppure in quell’album c’era, se non tutto, molto. Non ha vissuto quanto avrebbe meritato, però da uomo d’ideali ha vissuto profondamente, lasciando orme per chi percorre la via dell’arte e l’arte della vita.

Enrico Campofreda, 5 gennaio 2015

articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it

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