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Storia di G., 19 anni, soldato di camorra, un vuoto a perdere

G. ha solo 19 anni eppure può già vantare un discreto “curriculum” criminale, una lunga sfilza di reati che ha cominciato a collezionare da quando ancora non era maggiorenne. Da qualche mese però ha abbandonato la vita del cane sciolto ed è diventato un soldato del “sistema”, come in gergo è chiamata la camorra. È passato con i grandi, quelli che controllano il dedalo di vicoli che formano il centro storico di Napoli. Ha realizzato il sogno di una vita perché finalmente può dimostrare di avere la stoffa del boss, di non avere paura a “prendere i soldi da mano alla gente”, di poter dire di appartenere alla “malavita”, anche se non sa che sono almeno 10 anni che nessuno usa più questa parola.

Passare con il clan è per lui un diploma di laurea, la chiave per aprire quel mondo di violenza e arroganza che ha sempre sognato, di guadagnare soldi facili.

Non è più il criminale di strada che vive di espedienti, adesso appartiene al “sistema” e come tale deve essere rispettato e temuto.

Anche i “capi” sono contenti di lui perché sanno che G. è “nu’ vacant” ossia “un vuoto”, espressione usata per descrivere un soggetto che non si fa tanti scrupoli a usare la violenza, che non pensa alle conseguenze delle sue azioni. Per questo se lo tengono vicino e chiudono un occhio quando senza il loro permesso, il “piccolo” boss va in giro a pretendere i soldi dai commercianti del quartiere.

Sanno che su uno come G. possono fare affidamento perché è smanioso di "fare punti", di crearsi un nome. Sanno che se dovesse esserci bisogno di qualcuno che fa un “pezzo” G., è disponibile perché ansioso di salire i gradini della scala gerarchica del clan, di mettersi in mostra.

Lo fanno sentire accolto e benvoluto quasi come se fosse uno della famiglia.

G. però non è uno della famiglia. Non si rende conto che non è figlio, fratello, nipote. Non si rende conto che le pacche sulle spalle non sono frutto di stima e affetto, ma hanno lo stesso significato delle carezze che un padrone accorto farebbe a un cane da guardia per tenerselo buono. Perché, in fin dei conti, G. per il clan è solo un cane da guardia, una belva tenuta al guinzaglio grazie al miraggio di far parte dell’organizzazione e che all’occorrenza può essere sciolta contro i nemici.

Di quello che è il suo vero ruolo, però G. non ne ha la minima idea, anzi. Forse in cuor suo spera che presto scoppi una nuova guerra di camorra o una faida come quella di Secondigliano in modo da poter dimostrare ai capi quant’è coraggioso. Forse s’immagina mentre casco integrale sul capo scorrazza per i vicoli di Napoli in cerca del suo obiettivo oppure mentre nascosto in un basso aspetta di ricevere ordini per la prossima missione di morte.

Forse con i suoi amici si vanta di come saprebbe reggere il carcere senza dire una parola sul clan, non come quegli “infami” dei pentiti che hanno rovinato tante “famiglie”.

Forse, tra una sniffata di coca e l’altra, dice anche di non avere paura di morire perché, tutto sommato, è un attimo.

Però non ci sono nemici tra i vicoli di Napoli. Allora G. deve accontentarsi di mostrarsi beffardo con i poliziotti che periodicamente lo controllano e ai quali mostra il Rolex costato quanto tre dei loro stipendi oppure di intimorire i commercianti della zona, entrando nei loro negozi con un borsello a tracolla da cui spunta il calcio di una pistola.

Si sente intoccabile. È convinto che basti mostrare i muscoli per fare abbassare lo sguardo alle persone e intascare i soldi per “il servizio”, com’è soprannominata la cocaina.

Si sbaglia G. ma non se ne rende conto. Non se n’è mai reso conto. Non se ne rende conto nemmeno quando accoltella un commerciante che si rifiuta di pagargli i vizi. Non se rende conto nemmeno quando i carabinieri lo ammanettano nella stanza da letto della sorella. Non se rende conto nemmeno quando il giudice lo sbatte a Poggioreale con le accuse di tentata estorsione e lesioni. Non se ne rende conto nemmeno quando i capi, gli amici, lo abbandonano senza neanche pagargli l’avvocato. Non se ne rende conto nemmeno quando i familiari sono costretti a ore di fila interminabili per consegnargli un pacco di biancheria pulita. Non se ne rende conto nemmeno adesso che convive con altri 7 detenuti in una cella minuscola.

Non se ne rende conto perché lui è il cane da guardia del “sistema” e i cani non ragionano.

Luigi Sabino
StrozzateciTutti.info

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