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Siria: meglio lo Stato islamico o Assad? (Terza Parte)

La domanda che spesso viene posta a chi continua a denunciare i crimini di Asad è: “È meglio lo Stato islamico o Asad?”, è una domanda retorica di facile soluzione. Questo pezzo (il terzo di tre) vuole dare risposta alle questioni poste anche da chi sostiene Asad, non presentando solo opinioni ma fatti documentati accaduti negli ultimi quattro anni. Si presenta come un ampio dizionario di testimonianze video delle atrocità siriane.

(Qui la prima parte dell'intervento di Alberto Salvioli, qui la seconda)

153322_600b(di Alberto Savioli)

Questo pezzo è la terza parte di un lungo articolo le cui prime due puntate sono apparse nelle settimane precedenti (parte 1 e parte 2). Prendetevi il vostro tempo, ma guardate i video, alla fine sarà impossibile riproporre la domanda: “Meglio lo Stato islamico o Asad?”.

Fondamentalismo costruito a tavolino

Molti estremisti arruolati dallo Stato islamico (Is), facevano parte di quei gruppi sunniti creati da Asasd in funzione anti-americana e mandati a combattere in Iraq nel 2004-07 secondo una nota strategia.

Mentre Mazen Darwish, giornalista e direttore del Centro per i media e la libertà di espressione, così come centinaia di attivisti finivano in carcere, il regime con le amnistie liberava fondamentalisti e tagliagole. Alcuni capi delle brigate ribelli sono usciti di prigione con le amnistie di Assad nel luglio 2011: Zarhan Allush, Hassan Abbud e al Jolani (di Jabhat al Nusra).

Questa prassi è confermata anche dalla scrittrice siriana Samar Yazbek, alawita come il presidente siriano e finita in carcere come oppositrice. Quando si trovava nel nord della Siria per dare sostegno alle donne dei campi profughi racconta di avere parlato con diversi jihadisti: “Ho parlato con loro per un anno intero sulla linea del fronte… alcuni mi hanno detto che erano in prigione con me e che Bashar li aveva rilasciati nel mese di aprile 2011”.

Per lei, i jihadisti “sono i figli della politica di Asad”. “(Asad) è il primo assassino nel Paese”, continua, ricordando il bombardamento incessante del regime contro il suo stesso popolo: Nei villaggi del nord, ti fa impazzire, non si può fare nulla”.

syrian-cheUn presidente non confessionale ordina un massacro confessionale

Una delle domande frequentemente poste dal geo-politologo riguarda la sorte delle minoranze: cosa ne sarebbe dei cristiani e degli sciiti se cadesse Asad e il paese venisse conquistato dallo Stato islamico?

È innegabile che nell’attuale situazione di guerriglia in un territorio frazionato tra diversi contendenti – in alcune zone a macchia di leopardo – molte persone e non solo tra le minoranze si sentano tutelate dal regime e sarebbero in pericolo sotto lo Stato islamico o altri gruppi ribelli. Nessuna persona sana di mente considera l’Is un’alternativa.

È evidente che solo una situazione politica può porre fine a questo conflitto. Ma il conflitto non può avere fine per paura dell’Is, e per questa paura non si può riabilitare Asad, che è l’origine prima di questo disastro.

Sono state le “squadracce” di Asad a compiere il massacro confessionale a danno dei sunniti di Banyas e al Beida nel maggio 2013, come documentato anche da Human Rights Watch, 248 persone (tra cui donne e bambini) sono state uccise a sangue freddo, alcuni di loro sgozzati. Ma allora nessun geo-politologo ha denunciato il fatto o si è “stracciato le vesti” per quelle morti.

Il massacro era anche stato annunciato e pianificato in un video (video 1 al min. 4.21, 2) da Mihrac Ural, chiamato Ali al Kayali, un alawita turco comandante di una milizia forte di 2000 uomini, la Resistenza siriana (Ssi). Ali Kayali usa i termini “liberare” e “purificare” per intendere: uccidere i civili di un’enclave sunnita (Banyas), in una zona a maggioranza alawita. Molti sostenitori di Asad in Italia utilizzano termini simili: liberare e derattizzare.

I fatti di allora cphoto (5)bishe in altri contesti verrebbero chiamati genocidio, sono ben illustrati nei video che seguono (123456). L’immagine a sinistra è stata volutamente distorta per il contenuto forte, per chi volesse approfondire con ulteriori immagini rimando ai link (123).

I soldati governativi festeggiavano l’esito della “purificazione” al grido di “Dio, la Siria, Bashar e basta” e “Bashar non ti preoccupare siamo i tuoi uomini, noi beviamo il sangue” (video). Prima di trucidarli calpestavano gli abitanti della città (video), ed infine hanno lasciato uno scempio fatto di cadaveri di uomini, donne e bambini (video).

Un errore che – a mio avviso – compie il geo-politologo ponendo la domanda: “È meglio lo Stato Islamico o Asad?” sta nel fatto che considera Asad il male minore, facendo una distinzione tra l’orco buono e l’orco cattivo. Lo sbaglio è porre come unica alternativa Asad o l’Is: la Siria non è Asad, il pluralismo politico e il laicismo esistevano in Siria prima del colpo di stato di Hafez al Asad.

Perché non è possibile concepire una Siria senza chi si è macchiato di gravi crimini contro l’umanità? Una soluzione politica che prevede l’allontanamento di Asad (anche se non è in agenda) senza la caduta del sistema statale siriano, servirebbe a coagulare contro l’Is quelle forze sunnite che inevitabilmente vedono Asad come il nemico ma che non si identificano nello Stato islamico.

Il mantra ripetuto da una certa stampa occidentale, di Asad protettore delle minoranze, è vero fintanto che quelle minoranze riconoscono il rais come loro legittimo capo, come dimostrano i molteplici episodi di oppositori e attivisti cristiani, alawiti, sciiti arrestati o uccisi per essersi opposti alla dittatura. Questo aspetto è spiegato chiaramente dall’attrice cristiana May Skaaf, più volte arrestata, nel documentario Farewell to Damascus

“Sono molto preoccupata per gli alawiti in Siria, non è colpa loro, per quarant’anni sono stati portati a credere che se Hafez al Asad e il regime che ha ereditato Bashar al Asad fossero stati spazzati via, i sunniti sarebbero venuti per macellarli [non si riferisce qui allo Stato islamico o ai gruppi salafiti n.d.r.]. Hanno lavorato sodo per fissare questa idea nelle loro teste. Ho davvero paura per loro, perché questo regime ha lavorato così duramente per trasformare questa rivolta in una guerra civile, perché un gran numero di milizie pro-regime appartengono alle minoranze (…). Sto parlando di politica, la politica di terrorizzare le minoranze, una politica che questo regime ha imposto alla società. Che senza il regime, i sunniti vengono a massacrare le minoranze. Poi ci sono i benefici, un gran numero di coloro che è nell’esercito gode di notevoli privilegi. Tutto questo serve a legarli al regime, sono diventati regime. Si tratta di un arazzo marcio che il regime ha tessuto al fine di raggiungere questo momento, e sa esattamente dove questo lo sta portando. Essi non si preoccupano dello stato di diritto, né della difesa delle minoranze, perché le minoranze non sono il problema. Si tratta di una rete di mafie che provengono da tutti i diversi gruppi. Si sono messi assieme solo per questo momento. Nel momento in cui avrebbero perso la loro immoralità…”.

IMG_63281-620x330La società civile ignorata per dare forza alla tesi complottista

Chi sostiene la tesi del complotto destabilizzatore ai danni della Siria, parla di disegno globale e di primavere arabe tout court, di Siria, Libia mettendoci dentro anche l’Ucraina. Ma omettono sempre di parlare di Tunisia, dove tutto è cominciato con un dittatore rimosso immediatamente senza portare il Paese nel baratro siriano con uno scontro fratricida e dove alle recenti elezioni ha vinto un partito sostanzialmente laico. Dimenticano anche di dire che in Egitto c’è stata una restaurazione dell’esercito. E non parlano nemmeno dello scoppio delle manifestazioni di piazza e pacifiche in Paesi alleati dei destabilizzatori americani, come la Giordania e il Bahrein.

Il tentativo di rendere lineare il corso degli eventi, viene fatto da chi sposa la tesi complottista, negando le manifestazioni di piazza pacifiche, tacendo di arresti e torture, tacendo dell’opposizione politica interna che non chiedeva la caduta del regime ma è stata costretta ugualmente all’esilio o alla prigione.

Quella società civile che protestava pacificamente nel 2011 esiste ancora anche se minoritaria o silente, denuncia a rischio del carcere o della vita le violazioni del regime e dei ribelli (a seconda di dove vive), sviluppa progetti locali di solidarietà tra comunità, sostiene progetti legati all’informazione, all’istruzione o agli aiuti materiali.

Continuiamo a ignorarla come abbiamo fatto nel 2011, ma nel 2015 o nel 2016 non lamentiamoci per la nascita del nuovo mostro peggiore dello Stato islamico. Lo Stato islamico è percepito da molti elementi sunniti combattenti come una possibilità di rivalsa dopo anni di dominio politico sciita in Siria e Iraq.

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Come sconfiggere lo Stato islamico

I recenti bombardamenti degli Usa hanno preso di mira anche due gruppi salafiti (Jabhat al Nusra e Ahrar al Sham) che combattevano contro lo Stato islamico soprattutto nella zona di Idlib. Il primo risultato è stato che la Nusra avrebbe dichiarato di essere pronta a combattere assieme all’Is.

Anche qui si registra il solito “effetto collaterale” dei bombardamenti, come si vede in questo recente video che documenta la morte di bambini a Harem (Idlib), il 6 novembre. Dopo questo fatto le loro famiglie sosterranno maggiormente lo Stato islamico.

Questo aspetto è evidente nell’interessante documentario del giornalista di origine svedese, Tam Hussein, che ha parlato con jihadisti olandesi all’interno del battaglione Jund al Aqsa e che dice che “quando gli americani bombardano, la gente esce in sostegno dello Stato islamico, dicendo: Siamo tutti Is”.

La giornalista Zaina Erhaim che twitta da Aleppo (nella foto sopra accanto a un murales), scrive: Un emiro che ha defezionato dall’Is mi ha confessato che il numero di nuovi jihadisti è aumentato dall’inizio dei bombardamenti della Coalizione”.

Domandare in modo retorico: “È meglio Asad o il terrorismo (lo Stato islamico)?”, oppure: “Cosa ne sarebbe della Siria se cadesse Asad con tutti i terroristi che hanno invaso il Paese”, che valore ha, se si omette di dire che il dittatore è corresponsabile di questi eventi? La repressione violenta del 2011 non era indirizzata contro la Nusra o lo Stato islamico (che non esistevano ancora), ma contro manifestanti pacifici, contro oppositori e giornalisti, mentre le amnistie liberavano i comandanti di Ahrar ash Sham, del Fronte Islamico e della Nusra.

Che valore ha questa domanda retorica quando si omette di dire che giornalmente muoiono civili sotto le bombe del regime di Asad?

Possiamo anche parlare solo dello Stato islamico che ci fa paura (come “Occidente”), ma fino a un anno e mezzo fa questo non esisteva, c’era Asad che massacrava e arrestava (oltre a combattere contro la galassia dei ribelli), e quattro anni fa non c’erano nemmeno i ribelli, ma c’era sempre Asad che sparava sulla folla, arrestava e torturava.

La lotta allo Stato islamico non può che passare per una parola: giustizia. Le persone che non hanno desiderio di rivalsa non andranno con l’Is. Che ci piaccia o meno, per sconfiggere lo Stato islamico è necessario sostenere quella popolazione sunnita, la maggioranza, che non condivide l’estremismo di questo e che è costretta a convivere – pena la morte – con le vessazioni e le imposizioni dell’Is.

Nel mese di agosto, nei pressi di Deir az Zor, sono stati uccisi dallo Stato islamico 700 membri del clan Sweitat (della tribù degli Aghedaat) in un tentativo di ribellione contro l’Is – si erano già ribellati ad Asad in passato. Sconfiggere il Califfato e la sua forza attrattiva, è possibile solo con il sostegno di quest’elemento sunnita che non accetterà mai di ritornare sotto l’ala “sciita” di Asad.

Riabilitare il rais per paura del fondamentalismo e riconsegnare l’intero Paese a chi ha creato tutto ciò, vuol dire spingere anche gli elementi moderati tra le braccia dello Stato islamico nell’immediato e posticipare la risoluzione di un problema che si ripresenterà in futuro.

Una persona intelligente, arrivata alla fine della lettura di questi tre pezzi, dopo aver visto tutti i video, penso non abbia più voglia di chiedere: “È meglio lo Stato Islamico o Asad?”.

La scelta che poi faranno gli Stati con la loro realpolitik è altra cosa, ma questa spesso non contempla la giustizia e nemmeno i crimini contro l’umanità.

 

Qui la prima parte dell'intervento di Alberto Salvioli, qui la seconda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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