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Shalabayeva: la guerra dei Ministeri

Gratta gratta le cose cominciano a venire fuori. Perché il caso della deportazione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua non è affatto chiuso. Tutt’altro.

Prima c’è stata la strana (molto strana) vicenda di un passaporto che i nostri funzionari dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma (pressati e un bel po' "influenzati" dall’ambasciata kazaka) hanno considerato falso mentre l’ente emittente (la Repubblica Centrafricana) ne affermava l’autenticità. E già qui c’è una questione di non poco conto, perché a occhio e croce si direbbe che l’unico ente autorizzato ad attestare la veridicità di un documento è quello che lo ha emesso, non certo chi lo guarda.

Poi c’è il caso della giovane Giudice di pace, Stefania Lavore, che ha confermato il trattenimento presso il CIE della donna kazaka, ma pare che “sia stata tratta in inganno dalla polizia che non le ha trasmesso atti fondamentali per identificare la signora Alma Shalabayeva”, secondo quanto afferma il Presidente del Tribunale di Roma, Mario Bresciano, dopo l’ispezione ordinata dal Ministro Cancellieri per capire come si sono svolti esattamente i fatti relativi ai vari magistrati coinvolti.

“Non posso negare che un togato con maggiore esperienza avrebbe potuto accorgersi delle tante stranezze, ma questo non inficia assolutamente quanto è stato fatto. Il comportamento della giudice è stato ineccepibile” afferma Bresciano secondo quanto riportato dal Corriere: “Non altrettanto si può dire della polizia che certamente ha agito con una fretta insolita e anomala. Ma soprattutto ha tenuto per sé delle informazioni preziose”.

Tenere per sé informazioni “preziose” nascondendole al magistrato che deve decidere su una questione così drammaticamente (e falsamente) urgente, lascia intravedere ipotesi di reato estremamente gravi vista la situazione e viste le conseguenze per il nostro paese sul piano internazionale. E infatti il Presidente Bresciano “decide di trasmettere il fascicolo al capo dei pubblici ministeri evidenziando «il fumus di possibili reati di chi gestì la procedura». E dunque sollecitando l'apertura di un'indagine”.

Non a caso il titolo del pezzo - in prima pagina del maggior quotidiano nazionale - è “I giudici denunciano la polizia”.

Ma quali erano queste informazioni preziose? Al Giudice non viene mostrata una nota dell’ambasciata kazaka - indirizzata all’Ufficio Immigrazione della Questura già il giorno prima dell’udienza - in cui si fanno entrambi i nomi usati dalla donna, Ayan e Shalabayeva, che avrebbero potuto far fermare tutta la pratica in attesa, quantomeno, di chiarimenti.

Senza quella nota il magistrato non poteva avere dubbi: quella donna lì davanti a lei poteva essere solo una sedicente Alma Ayan munita di un passaporto centrafricano definito dalla Questura “palesemente falsificato”. E non avrebbe potuto fare altro che confermare il trattenimento al CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione). Da cui poi l'autorità di sicurezza - non il magistrato - ha celermente proceduto con l'espulsione.

Ma perché comunicare al Giudice di pace solo il nome presente sul passaporto centrafricano?

“Se il giudice di pace avesse avuto quella nota, il corso della vicenda avrebbe potuto essere diverso?” - si chiede il Fatto - “Di certo, il giudice avrebbe potuto porsi una domanda centrale, e cioè se la donna di cui stava convalidando il trattenimento nel Cie fosse Alma Ayan, in base all’identità da lei stessa fornita, o Alma Shalabayeva, come indicava la nota”.

Insomma la polizia ha omesso di dire al giudice che sapeva chi era quella donna dai tratti asiatici ed ha parlato di lei solo come di una finta africana con documenti falsi.

Adesso la magistratura presenta il conto. Questo sembra essere il primo indiscutibile segno che un altro Ministero - dopo quello degli Affari Esteri a cui è solo stato chiesto di verificare se una certa Alma Ayan godeva di immunità diplomatica - sia stato volutamente tenuto all’oscuro di verità che avrebbero potuto far fallire la strana “operazione” di trasferimento forzato verso il Kazakhstan.

Tutto ciò, tradotto in altri termini significa che dopo le parole di Emma Bonino: "Ci sono ancora dei punti oscuri che altre istituzioni devono chiarire", anche l’altro dicastero coinvolto nel caso Shalabayeva, quello della Giustizia guidato da Annamaria Cancellieri, dopo il tempo necessario per chiarirsi le idee, adesso ha rotto gli indugi ed è sceso in campo contro le malefatte (ancora non si sa se pianificate o meno, ma in ogni caso certamente male-fatte) dei funzionari dipendenti a vario titolo dal Ministero degli Interni.

E non lo fa andandoci leggero; se davvero “qualcuno” in forza agli organi di polizia ha “tenuto per sé delle informazioni preziose” per identificare Alma Shalabayeva significa che c’era una precisa volontà di ingannare gli organi della magistratura che sono gli unici, per legge, a poter disporre il trattenimento in un CIE di uno straniero in attesa di identificazione certa.

Inoltre, ci ricorda Marco Pannella: “Non solo le direttive del diritto internazionale ma anche le norme del diritto italiano prevedono che chi subisce un decreto di espulsione deve poter scegliere da quale frontiera ritiene opportuno abbandonare il paese”.

Alma Shalabayeva ha mostrato i documenti (ma la polizia li ha ritenuti falsi), poteva chiedere a norma di legge l’allontanamento volontario prima dell'espulsione forzata (ma la polizia l’ha imbarcata su un aereo privato con destinazione determinata) e poteva chiedere di poter uscire dal paese da una frontiera di sua scelta (ma, di sicuro, non gliel’hanno permesso).

Sembra sempre più chiaro quindi che non si tratta di leggerezze, di errori, di fretta tanto immotivata quanto inspiegabile. Si tratta, a quello che sembra, di un vero e proprio "rapimento" portato a termine da uomini delle istituzioni del nostro paese.

E davvero il Ministro preposto a tutta la catena di comando che si è mossa agli ordini dell’ambasciatore kazako non sapeva? Davvero dei funzionari degli Interni si scatenano in un doppio blitz nella villa di Casal Palocco e poi in una serie di insostenibili “verità” senza che il massimo livello politico ne sapesse niente?

Qualche testa è già caduta e altre cadranno, ma non è con gli avvicendamenti in corso che la questione finirà. Adesso gli "altri" due Ministeri coinvolti hanno cominciato a scavare e la magistratura ha aperto un’indagine. È possibile che sia meno, molto meno, edulcorata di quella “interna” del nuovo capo della polizia messo lì, guardacaso, dal Ministro che sta nell’occhio del ciclone.

Foto logo: Wikimedia

 

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