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Riduzione del debito pubblico: ipotesi di lavoro

Attualmente molti paesi sono letteralmente ingessati finanziariamente ed economicamente a causa del livello esagerato ed ingestibile del debito pubblico. Una nazione per tale motivo si blocca, rinuncia alla sua missione principale di organizzare al meglio la vita in comune di milioni di persone, depotenziandone le capacità creative e produttive, aumentando il senso di sofferenza e frustrazione collettivo dei cittadini amministrati.

A fronte dell’indicatore numerico “debito pubblico”, di per sé banale, vi sono tantissimi cittadini che di fatto non utilizzano in maniera creativa e produttiva i propri risparmi investiti in titoli dello Stato, li gestiscono in maniera passiva e ne ricavano nel tempo un compenso ripetitivo dettato dal “tasso d’interesse di mercato”.

Cosa c’è dietro al “tasso d’interesse di mercato”? Val la pena segnalare, tra l’altro, i 708.000 miliardi di dollari di “derivati finanziari” “Over the counther” (OTC), cioè contratti finanziari che puntano e scommettono in massima parte proprio sul livello dei tassi d’interesse futuri, negoziati fuori dai mercati regolamentati e tenuti fuori bilancio dalle maggiori banche internazionali.

Il dato è rilevato dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) di Basilea nel suo ultimo rapporto trimestrale pubblicato lo scorso dicembre 2011. Nello stesso si conferma la ripresa di un nuovo e aggressivo impazzimento della finanza globale. Alla fine di giugno 2011 il “valore nozionale” totale degli Otc ha raggiunto, come già detto, i 708 trilioni di dollari (migliaia di miliardi o milioni di milioni di dollari) con un aumento del 18 per cento rispetto al livello calcolato a fine dicembre 2010. 

Paolo Raimondi, in un suo articolo “La valanga dei derivati OTC”, pubblicato il 9 febbraio 2012 su “lafinanzasulweb.it”, rammenta che alla vigilia della grande crisi, a giugno 2008, il totale Otc aveva raggiunto la vetta di 673 trilioni di dollari. Sostiene che “la finanza speculativa si allarga a dismisura e l’economia reale e produttiva si contrae”. Fa notare che, “se nel 2009 le cinque maggiori banche americane detenevano l’80% di tutti i derivati emessi negli USA, oggi quattro banche soltanto, JPMorganChase, City Group, Bank of America e Goldman Sachs, ne detengono il 94 per cento del totale (235 su 250 trilioni di dollari)”.

Tanto premesso, occorre “ingabbiare il mostro” prima che la situazione diventi ingestibile e gli Stati ed i cittadini perdano libertà e dignità. E’ opportuna un’ammissione di corresponsabilità complessiva del Paese – cittadini, istituzioni e forze politiche – in relazione alla mancata capacità di tenuta in equilibrio dei conti statali e di adeguato sostegno e finanziamento delle attività pubbliche e private.

Se uno degli ostacoli maggiori al regolare funzionamento di uno Stato è l’insostenibilità del debito pubblico è necessario depotenziarlo (il debito) e renderlo innocuo. Non affrontare tempestivamente il problema significa aggravarlo e renderlo irrisolvibile. In assenza di valide alternative, occorre “resettare” il sistema.

Gli Stati dell’Unione europea di comune accordo dovrebbero congelare una quota di debito pubblico nazionale in maniera che il debito residuo da gestire risulti pari all’80 per cento del Prodotto Interno Lordo (PIL). Salvo puntare successivamente al 60 per cento come previsto dalla vigente normativa europea.

L’Italia per parte sua dovrebbe “congelare” da subito circa 640 miliardi di euro, pari al 35 per cento dei 1.900 miliardi di euro del suo debito complessivo. Risultato dell’operazione: 1.260 miliardi di euro di debito residuo rapportati ai 1.580 miliardi di euro di PIL evidenziano un rapporto dell’80 per cento ritenuto accettabile e gestibile.

In tal modo l’Italia e gli altri Paesi dell’Unione europea cessano di erogare interessi sulla quota di titoli precedentemente venduti agli investitori e “congelati con la manovra di rientro forzoso”. Contestualmente, gli Stati interessati alla manovra provvedono ad assegnare ai titolari dei “vecchi” titoli Stato – BTP italiani, OAT francesi e BUND tedeschi, “certificati di credito” di entità corrispondente ai valori nominali degli stessi titoli congelati o soppressi, denominati nella comune valuta euro, eventualmente negoziabili sul mercato.

La Banca Centrale Europea (BCE) dovrebbe tenere costantemente a disposizione della Banche centrali nazionali dei Paesi dell’Unione europea, impegnati nella manovra di rientro forzoso, risorse tali da soddisfare in modo automatico le richieste di utilizzo dei fondi da parte dei cittadini a fronte dei crediti segnati sui “certificati” attribuiti agli stessi all’atto della “sterilizzazione” della quota predeterminata di debito pubblico.

La cancellazione parziale di debito pubblico dovrebbe riguardare per primi i titoli a scadenza ravvicinata. Ne beneficerebbe l’allungamento medio delle scadenze del debito pubblico residuo. Si potrebbe anche ritenere utile eliminare per primi i titoli a più lunga scadenza, più costosi nella remunerazione. 

I possessori di “certificati di credito” hanno diritto a richiedere liberamente ed automaticamente allo Stato, per il tramite della propria banca, liquidità e risorse fino alla concorrenza del valore complessivo riconosciuto dai “certificati”, versando un interesse annuo predefinito dell’uno per cento sulle somme impegnate. Si potrebbe anche stabilire un tasso d’interesse diverso per rispondere a peculiarità e logiche diverse.

Il mancato versamento di detto interesse alle scadenze convenute da parte del cittadino interessato determinerebbe l’automatica riduzione del valore complessivo del “certificato di credito” in precedenza attribuitogli.

Il risparmiatore, di fatto, può riavere la disponibilità del capitale precedentemente posseduto e destinato a suo tempo all’acquisto di titoli di Stato, fermo restando l’impegno inderogabile a versare l’interesse dell’uno per cento annuo allo Stato sulle somme utilizzate. E’ l’onere (non solo materiale) da pagare, in aggiunta alla mancata percezione di interessi ante azzeramento, per il concorso più o meno consapevole alla cattiva gestione della finanza pubblica ed al declino di credibilità del Paese.

Con dette modalità, al risparmiatore non sarebbe sottratta la possibilità di soddisfare con regolarità le sue esigenze di vita, dando risposta alle sue attitudini creative e produttive. Si può immaginare un conseguente, maggior impegno individuale in direzione del bene comune ed una maggiore attenzione per l’azione dei governanti mirata a renderne efficiente e responsabile l’azione amministrativa. 

Vi sarebbe nel Paese una sferzata di vitalità, di impegno innovativo dei cittadini anche allo scopo di vincere la sfida per ricostituire le precedenti posizioni finanziarie individuali e compensare l’onere dell’uno per cento da riconoscere allo Stato.

Con uno Stato sgravato in maniera significativa del pesante fardello del debito pubblico si aprirebbero spazi per iniziative ed attività a favore di giovani ed imprenditori volenterosi che oggi vedono le loro strade puntellate di ostacoli burocratici e blocchi finanziari.

Per quanto superfluo, lo Stato potrebbe emettere nuovi titoli di debito solo in previsione ed in concomitanza di investimenti produttivi di lungo periodo, capaci di ripagare nel tempo il debito e gli interessi da riconoscere ai nuovi sottoscrittori.

La compressione del livello medio di tassazione dovrebbe essere, assieme agli obiettivi di consolidamento finanziario e crescita produttiva del Paese, lo sbocco tangibile e premiante a beneficio di tutti i contribuenti.

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