• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Media > Report: dalla social tivù al social e basta

Report: dalla social tivù al social e basta

Ho visto il tanto discusso servizio di Report sui social media. Non mi è piaciuto particolarmente, ma non ho nemmeno trovato motivi per una specie di sollevazione popolare contro la trasmissione di Milena Gabanelli «nemica di Internet». Lei, nella replica a l’Unità, penso abbia colto nel segno: la puntata non doveva necessariamente addentrarsi nella sociologia della rete o fornirne uno spaccato a 360 gradi.

Gabanelli non è una sociologa, ma una giornalista d’inchiesta. E probabilmente quando guarda Facebook con gli occhi da professionista non vede un intricato mondo fatto di relazioni sociali che mutano, a volte in modo positivo e altre volte celando dei pericoli, ma dei rapporti di potere, dei movimenti di denaro e delle regole che, più o meno apertamente, vengono infrante o bypassate.

Il tema, poi, era ben preciso: i rischi di un utilizzo non consapevole dei social media possono avere per la nostra privacy individuale. Si può contestare a Report di aver fatto un buon lavoro d’inchiesta, e c’è chi ha puntualizzato alcuni granchi che vengono peraltro tipicamente presi da chi si avventura, da estraneo, nei lidi digitali. Tuttavia non mi sembra niente di straordinario, niente di nuovo (a parte forse la delusione dei suoi fan più accaniti). E, per questo, niente che giustifichi una tale reazione.

Eppure la reazione c’è stata, e penso riveli un particolare che mostra, ben più del servizio di Report, un fattore di arretratezza della nostra cultura digitale: la sua scarsa indipendenza da quella televisiva. Certo, la televisione, per le sue caratteristiche strutturali, convoglia un flusso di opinioni sullo stesso argomento. Diversamente dalla rete, dove i dibattiti possono rimanere isole sconosciute l’una all’altra. Così che un dibattito scatenato sulla prima finisce per travolgerne molti sbocciati sulla seconda.

Tuttavia spesso si ha la sensazione che internet sia niente altro che un mezzo in cui ritrovarsi per commentare con una mano ciò che con l’altra, impegnata sul telecomando, abbiamo deciso di fissare in tivù. Come durante la breve e fortunata esistenza di Vieni via con me, o per il Festival di Sanremo. Come per riti che si ripetono settimanalmente, da Ballarò ad Annozero.

Con conseguenze spiacevoli. La settimana scorsa, per esempio, mi è capitato di rientrare tardi a casa, connettermi a Facebook e Twitter e trovarne le bacheche insozzate di commenti, più o meno intelligenti, su Giorgio Stracquadanio. Lui, provocatore di professione, sapeva benissimo di stare guadagnandoseli. Stracquadanio, me lo ha confidato lui stesso, viene spesso chiamato in trasmissione proprio per queste sua abilità. Un troll televisivo, se si vuole, ma di successo. Così Santoro provoca, lui risponde, la rete insorge, e tutti sono felici e contenti.

Ecco, noi oggi siamo qui a chiederci se la televisione, anche nelle sue espressioni migliori, sia in grado di raccontare la rete. Eppure forse è giunto il momento di chiederci se la rete sia capace di raccontare se stessa senza diventare una succursale interattiva della televisione. Insomma, dalla «social tivù» al social e basta. O quasi.

La strada è ancora lunga, ma pensare che ci sarà un giorno in cui un servizio un po’ banale o lo Stracquadanio di turno non genereranno ondate di tweet e status updates mi riempie il cuore più di uno in cui quel servizio sia meglio realizzato, o in cui al posto di Stracquadanio ci sia uno statista. Quel giorno la rete sarà un po’ più indipendente. E noi, forse, un po’ più liberi di decidere di che cosa discutere.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.223) 12 aprile 2011 12:16

    "Tuttavia spesso si ha la sensazione che internet sia niente altro che un mezzo in cui ritrovarsi per commentare con una mano ciò che con l’altra, impegnata sul telecomando, abbiamo deciso di fissare in tivù".

    Concordo. In Italia é così, mentre in altri paesi l’input delle discussioni si trovano fuori dalla tv, di solito nascono da dentro i blog, in alternativa all’approccio della stampa tradizionale . 
    Però va detto anche che senza il - benedetto - senso di umorismo italiano che leggiamo è praticamente impossibile sopravvivere in Italia. 
    Astrid L.

  • Di (---.---.---.105) 13 aprile 2011 00:59

    E’ stupefacente che gli utenti dei social network non si siano invece rivoltati apprendendo come sono sfruttati da questi. Sindrome di Stoccolma? Difesa di una illusione? di una socialita’ virtuale?
    Geri Steve

    L’autrice della puntata di Report, Stefania Rimini, ha postato questa risposta:

    In seguito alla nostra puntata del 10 aprile “Il prodotto sei tu” (dedicata ai social network e alla privacy, sicurezza e libertà in rete) ci saremmo aspettati una mobilitazione del “popolo della Rete” italiano in difesa della libertà d’espressione su Internet, visto che l’Autorità garante delle comunicazioni sta ancora conducendo audizioni al riguardo e il momento giusto per farsi sentire è adesso. Invece, nessuno ha mosso un dito per digitare una mail di protesta. Ci saremmo aspettati ancora di più una mobilitazione in difesa del soldato Bradley Manning, che sta rischiando la vita accusato di tradimento, in nome della libera circolazione delle informazioni – qualsiasi informazione – in Rete. Invece no, la mobilitazione non è “salvate il soldato Manning”, ma “salvate il soldato Zuckerberg”. Potenza della Rete. Ci torneremo su, come di consueto, nel prossimo aggiornamento

  • Di Damiano Mazzotti (---.---.---.254) 13 aprile 2011 09:57
    Damiano Mazzotti


    I social in Italia sono diventati l’ipersocietà del pettegolezzo...

    Cosa volete che faccia un popolo di cittadini rincretiniti da sessantanti di partitocrazia più o meno incivile?

    Comunque condivido i pensieri di Fabio Chiusi.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares