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Colloqui sul razzismo. Renato Curcio presenta il suo libro a Taranto

Le tentazioni razziste di un Paese sedotto dalla cultura dell’indifferenza

La piccola sala è gremita. Quando arrivano i relatori, scattano i flash e poi è silenzio. Non si può negare che l’attenzione è focalizzata sui protagonisti della serata. Tra i relatori ci sono uomini che hanno dedicato la loro vita ad inseguire e testimoniare, con le proprie azioni, passioni e idee secondo modalità per diversi aspetti discutibili. Sono uomini dall’aspetto essenziale, austeri, che mal celano un vigore ed energia che sembra parlar per loro. Sono uomini che anche ad avvicinarli, pur nella loro disponibilità, comunicano una indefinibile distanza: sono sempre al di là di ogni comprensione, ma ne sono consapevoli forse e da questo traggono forza per continuare secondo altri percorsi, placati, a spendersi per la difesa dei più deboli seguendo strade che nascono all’interno delle questioni che raccontano oggi. Renato Curcio e Nicola Valentino presentano i loro ultimi lavori in “Colloqui sul razzismo”, la serata che introduce una serie di mini-convegni che Radio Popolare Salento - insieme ad un gruppo di associazioni tarantine talvolta disilluse, ma sempre in prima linea - dedica ad argomenti che mediamente fanno discutere solo il tempo del clamore mediatico suscitato da un avvenimento di cronaca, per poi essere dimenticati.

Al primo incontro partecipano, anche, Roberto De Angelis dell’Università La Sapienza di Roma, Piero Fumarola ed Eugenio Imbriani dell’Università del Salento. Renato Curcio apre la serata raccontando i motivi che lo hanno indotto allo studio del fenomeno del razzismo di matrice italica. Il suo è un parlare ampio e senza sconti, ma denota l’uso di categorie di pensiero coltivate in anni di studio. Cede talvolta a citazioni dotte, ma solo a conferma di ciò che lui ha sperimentato in anni di confronto con le realtà marginali del nostro tempo. Il suo libro “nasce da tre anni di lavoro con i migranti, minori abbandonati per le strade e adulti inseriti nel mondo del lavoro milanese. È un’opera nata dall’esigenza di fare i conti con la nostra cultura, con un piano della nostra storia che vive sotto pelle e che è difficile da scorgere a causa di storie di rimozioni continue.” L’analisi della questione parte dall’Unità d’Italia, dal processo di difficile integrazione del Sud del Paese dal 1870 in poi, dalle teorie del medico vicentino Cesare Lombroso che, in qualità di osservatore per i Savoia, studiò in quegli anni le differenze morfologiche tra la gente del Sud e quella del Nord, fondando l’antropologia criminale e definendo il trampolino di lancio di buona parte delle ideologie razziste. Pur essendo un luminare positivista e quindi progressista, Lombroso introdusse al processo del razzismo italico che negli anni ‘60 caratterizzò i flussi migratori interni e favorì la nascita di pregiudizi coltivati proprio nell’ambito delle più alte sfere culturali italiane, di coloro i quali avevano in mano la formazione culturale del Paese. “Le teorie di Lombroso furono utilizzate persino in America per i 27 milioni di persone che dall’inizio del ‘900 sino a qualche decennio fa scelsero di solcare l’oceano: quelle teorie definirono stereotipi che hanno armato culture di persecuzioni.

Paradossalmente, ma non tanto nella logica della corta memoria, qualche decennio dopo l’Italia fu definita Impero Coloniale, colpevole di crimini di guerra come pochi altri paesi europei. In Africa furono utilizzati gas e sostanze chimiche per attaccare fronti bellici e popolazione civile, attraverso l’inquinamento di acque e terreni fertili, per costringere ad esodi e favorire deportazioni di masse delle popolazioni cirenaica ed eritrea. La morte per stenti e fame di uomini e donne considerati inferiori culminò nei campi di concentramento italiani e nelle teorie antropologiche che misero in guardia le truppe dal pericolo degli incroci con la razza africana. “Sono segnali di un pensiero che non investe la dimensione politica: chi ha teorizzato il razzismo in Italia sono stati piuttosto i docenti universitari come Nicola Pende e i suoi studi sull’eugenetica. Dagli anni del regime fascista in poi, Pende non fu mai allontanato dalla sua cattedra e finì la sua carriera solo nel 1955”, sottolinea Curcio con un sottile e persistente biasimo “su questo voglio essere chiaro: il razzismo in Italia è piuttosto frutto della censura, intesa come sostituzione della verità secondo processi culturali, nati tra le più alte sfere intellettuali.

Certamente dal 1938 in poi le teorie razziste furono farcite dalle questioni storico-politiche, dai giochi di potere e alleanze, tanto che in Italia furono istituiti 220 campi di concentramento per le minoranze “indesiderate”, anche utilizzati come ponte verso Mauthausen. Ma questa è una storia percepita solo talvolta attraverso i libri di scuola, o certa letteratura meno famosa, poiché di tutto questo si parla poco. “Occorre liberarci del silenzio, imparare a guardare e riflettere sulle nostre mappe culturali, senza inciampare nello scontro politico, senza traslare queste riflessioni ai nostri giorni. Nelle scuole non passa nulla riguardo le atrocità condotte dagli italiani sui propri connazionali e verso le popolazioni africane. L’operazione razzista è rovesciata: si basa sulla macchina delle verità sostitutiva. Si tende a rendere impossibile alle persone di mettere su un pensiero e poter decidere cosa fare in maniera autonoma e  indipendente. È un sistema efficace per costruire ʻfolle freddeʼ, senza altri  pensieri che non siano di indifferenza. Uomini e donne che, a furia di sostituire, realizzano la capacità di andare avanti per dimenticanza”.

Allo scroscio degli applausi Curcio abbassa lo sguardo, sino a quel momento appassionato, tutto intento a poggiare il microfono. E non si possono celare pensieri controversi riguardo la capacità interamente italiana di chiudere gli occhi e continuare per altre vie. Intanto riecheggiano le considerazioni sulle politiche di integrazione dei Rom a Roma, sulle modalità di smobilitazione dei campi esistenti e il trasferimento delle popolazioni nei nuovi campi secondo procedure che la Protezione Civile riserva alle calamità naturali. Ritorna il ricordo dei ghetti ebrei, dei cancelli e degli orari, del pregiudizio razziale che cambia protagonisti e storie ma rimane ancorato all’atavica paura di ciò che è diverso da quello che siamo abituati a frequentare. E come nel gioco del domino, c’è da chiedersi perché questi piccoli concentrati di storia e considerazioni, a Taranto restano - anche loro - ai margini delle nostre locali realtà di discriminazione, mentre proprio lì avrebbero maggior senso. 

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