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Raccontare il mondo. Dal mito alla ragione

Siamo abituati, noi abitanti del Moderno, ancora intrisi in profondità da un paradigma “progressivo” nonostante le battute d’arresto subite del mito del progresso nelle sue varie versioni, a immaginare il percorso storico di ciò che chiamiamo “scienza”, “ragione”, come lineare, sistematico, continuo – e sempre più consapevole. Niente di più superficiale e ingenuo, a leggere Dal cosmo al caos. Configurazioni narrative e conoscenza scientifica (Ipermedium, 2013) del sociologo Antonio Camorrino, a sua volta un rigoroso racconto dell’evoluzione dei modelli di narrazione attraverso cui si è affermato il modo di concepire la conoscenza scientifica dalla civiltà greca alla modernità matura.

In realtà, l’affermazione di quella visione delle cose che per noi è positiva, scientifica, razionale – e scontata – che implica l’emancipazione definitiva dal soprannaturale e dalla metafisica e un decisivo disincanto speculativo è stata molto più tortuosa e accidentata, fatta di balzi in avanti e ritorni indietro, di battute d’arresto e ibridazioni, di vicoli ciechi e aperture quasi epifaniche.

Il racconto del cammino fatto dalla conoscenza della realtà e delle leggi che la reggono si intreccia per forza di cose con lo sviluppo del senso del Sé individuale, e con il procedere del controllo umano sulla natura e sulle sue forze, dello svelamento dei suoi segreti e misteri, fino alla costruzione di un’idea di “mondo a misura d’uomo” che sembra essere ormai egemone.

Il mondo così come lo conosciamo – cioè, così come continuamente lo negoziamo e lo descriviamo – è il frutto della combinazione di cambiamenti che hanno interessato la speculazione sulla realtà che si presentava ai sensi, di trasformazioni nelle tecnologie, ma anche dell’emergere dei supporti psicologici necessari a percepire, assorbire, metabolizzare le trasformazioni nella visione del mondo data in una certa formazione sociale: quel “mondo-dato-per-scontato” di cui scriveva Alfred Schutz e che costituisce la dimensione confortevole della stabilità e delle certezze accettate comunemente.

Perché – sempre, ma specialmente nelle società più arcaiche – è difficile accettare il cambiamento, e un mutamento nei modi di vedere le cose si trasforma nell’impressione che siano le cose stesse a trasformarsi, e quindi a incrinare il terreno di certezze, il sistema di ancoraggi che fino a quel momento avevano guidato l’azione umana.

Per cui il percorso della conoscenza, la nascita e l’affermazione di nuovi paradigmi – quindi di nuove cosmologie e di conseguenza configurazioni identitarie – si articola sempre oscillando fra l’entusiasmo per la sperimentazione e la diffidenza e la paura verso il nuovo, sempre troppo affine all’ignoto. Perché, come scriveva uno dei grandi autori del fantastico novecentesco, Howard Phillips Lovecraft, “l’emozione più antica dell’uomo è la paura, e la forma più antica di paura è la paura dell’ignoto” (2011). E la paura è da tenere a bada, da esorcizzare, da rielaborare.

E non deve meravigliare questo riferimento ad uno dei giganti dell’immaginario del soprannaturale, perché Lovecraft nei suoi racconti non fa altro che performare il continuo pendolare e altalenare fra il richiamo del sacro e le istanze del secolare che ha marcato l’intera vicenda delle configurazioni con cui gli umani si sono narrati la realtà. Anzi, la narrativa fantastica, e quella dell’orrore in particolare, mette in scena proprio la dinamica e il conflitto che si sono da sempre svolti fra le due forme di rappresentazione della realtà – e del rapporto dell’uomo con questa – nel tentativo di placare l’ansietà escatologica che definisce la condizione umana: il dubbio ontologico sul senso della nostra esistenza, sullo scopo della nostra vicenda – meglio, su se ci sia un qualsiasi senso o scopo…

Perché in realtà, già nella Grecia classica, e poi in quella Alessandrina erano emersi tratti di “narrazioni”, per dirla con Camorrino, che ponevano alla propria base elementi di razionalità, poi oscurati, per rispuntare in seguito, magari recedere di nuovo, fino – praticamente – ad oggi. Si pensi alla diffusione che le articolazioni dell’universo New Age hanno nella nostra epoca (Davis, 2001).

Per articolare il suo ragionamento il sociologo napoletano ricorre ad una dicotomia sviluppata dal sociologo tedesco Norbert Elias, quella fra coinvolgimento e distacco (1997): nelle società organizzate attorno ai paradigmi del sacro, gli uomini sono coinvolti, nel senso che si percepiscono come tutt’uno con la realtà circostante, in cui il sacro, il soprannaturale sono immanenti, mentre in quelle dove si è affermato il paradigma della razionalità – insieme al senso della unicità degli individui – l’uomo è distaccato dal mondo, può osservarlo dall’esterno – e può peraltro anche osservare se stesso agire, esprimendo ed esperendo al massimo grado quel continuo dialogo con se stesso organico all’individuo della modernità.

Fra questi due poli necessariamente idealtipici si collocano le formazioni sociali storicamente sviluppate, gli umani che ne hanno fatto parte, le configurazioni narrative che ne hanno tracciato la cosmogonia, gli “universi simbolici” che le hanno legittimate.

Adoperando una terminologia diversa, ma che mi sembra avere alla base la stessa dicotomia, il canadese Charles Taylor (2009) scrive di sé poroso e sé schermato, indicando col primo quello dell’uomo arcaico esposto alla penetrazione e alle scorribande del sacro in tutte le sue manifestazioni, inerme di fronte ai suoi – spesso incomprensibili – capricci, e col secondo quello dell’uomo che emerge insieme alla Modernità, separato, altro dal mondo, capace di osservare dall’esterno la realtà, quindi di percepirla e descriverla come disincantata, di modificarla e governarla. L’esatto opposto dell’uomo “coinvolto”, che invece vi vedeva il frutto, l’emanazione o della volontà di un soprannaturale multiplo e immanente, con cui era meglio non misurarsi, o – in seguito – della perfezione di Dio, che sarebbe stato blasfemo anche solo immaginare di migliorare…

C’è poi un altro livello di analisi, nel saggio del sociologo napoletano, che funziona da ulteriore – necessario – filo nella trama che Camorrino articola. E che dichiara la sua indipendenza e la sua estraneità agli approcci idealistici, finalistici, connessi alle filosofie della storia che ancora periodicamente scorrono sotto traccia per riemergere periodicamente nella ricerca e nel dibattito.

Il mutamento, quando si affaccia, ha sempre una base materiale: una nuova scoperta, una nuova invenzione, magari un’intuizione che viene messa alla prova e che sotterraneamente e lentamente spinge a modificare la propria visione del mondo. O dei miglioramenti oggettivi delle condizioni di vita, conseguenza magari di un mutamento climatico, o di un periodo di pace. O una necessità da soddisfare. Un esempio per tutti può essere il cambiamento che si è imposto lentamente nella percezione e nella gestione – nella misurazione dello scorrere – del tempo: da un tempo incombente, “coinvolgente”, divino, quello dei cicli naturali, del buio e della luce, del freddo e del caldo, della luna e del sole – che determinava tutte le attività umane – si passa, pur rimanendo entro l’orizzonte degli obblighi del sacro – gradualmente a un tempo umano, quello che regola la vita dei monasteri, e, grazie al suono delle campane, anche, gradualmente, quello della campagna e delle prime città.

All’interno del tempo di Dio comincia così a esprimersi il tempo dell’uomo, che organizza non solo i doveri dei monaci, ma anche i mestieri degli uomini, gettando così le prime pietre di un sentiero che porterà verso il disincanto del mondo, verso quella autonomia degli individui, finalmente liberati dalle forze che li tenevano avvinti alla dimensione dell’eteronomia (Gauchet, 2009).

Lentamente, con bruschi arresti e piccoli passi in avanti, l’azione combinata dei bisogni degli uomini, dei cambiamenti nelle tecnologie, delle conquiste del pensiero razionale muta la visione del mondo in cui l’uomo dell’Occidente si muove, costui trova nuovi supporti psicologici all’accettazione del cambiamento – non solo del panorama sociale e materiale che abita, ma anche del suo atteggiamento nei confronti di questo – fino a ribaltare un principio che aveva regnato per secoli: quello della superiorità delle attività contemplative su quelle pratiche. Gli artigiani, i mercanti, i tecnici acquistano prestigio, la sperimentazione acquista valore: il mondo non è più intoccabile, perché perfetto, ma è manipolabile, trasformabile, migliorabile. Riducibile alla misura dell’uomo, che acquisisce uno sguardo prospettico e comincia a progettare il proprio futuro. I “filosofi naturali”, progenitori dei nostri scienziati escono dall’ombra e cominciano ad esplorare la realtà, costruendo strumenti e sviluppando teorie, e affermando il primato dell’uomo e della sua capacità di costruire nuovi modi di vedere le cose. Perché "... alla fin fine, sono gli individui che elaborano nuove visioni del mondo."

 

Davis E. Techgnosis Miti magia e misticismo nell’era di internet, Ipermedium, Napoli, 2001.

Elias N., Coinvolgimento e distacco, Il Mulino, Bologna, 1997.

Gauchet M., La democrazia da una crisi all’altra, Ipermedium, S. Maria C.V., 2009.

Lovecraft H. P., L’orrore soprannaturale nella letteratura, in Teoria dell’orrore, Bietti, Milano, 2011.

Taylor C., L’età secolare, Feltrinelli, Milano, 2009.

di Adolfo Fattori

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