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"Qui non crescono i fiori" (ma nascono scrittori)

« O con amore o con odio, ma sempre con violenza » Cesare Pavese

« Tutto bene?, chiese l'uomo. Il bambino annuì. Poi si incamminarono sull'asfalto in una luce di piombo, strusciando i piedi nella cenere, l'uno il mondo intero dell'altro » Cormac Mc Carthy

Come ha fatto questo giovane scrittore torinese, che sembra avere il respiro di Emanuele Crialese e la luce guida di Cormac Mc Carthy, a scrivere così bene di una terra, di un'isola che non è sua, ma mia? Me lo sono chiesto più volte; leggendo il romanzo ("Qui non crescono i fiori" di Luca Giordano, ISBN edizioni), finendo il romanzo, rileggendo il romanzo. Continuo a chiedermelo adesso, un mese dopo, per scrivere questa recensione.

E l'ho chiesto anche a lui, all'autore che - da bravo scrittore che si rispetti - ha quella modestia un po' schiva che me lo ha reso molto simpatico. Sceneggiatore, diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia, Luca Giordano non scrive da sceneggiatore, anche se il suo romanzo d'esordio ha tutte le carte in regola per essere adattato; se da Salvatores o dallo stesso Crialese, questo lo lasciamo scegliere a lui.

Giordano non scrive da sceneggiatore perché la sua è una scrittura densa, corposa, non sottomessa al giogo delle immagini (che pure affiorano, inevitabilmente, dal suo modo di raccontare, molto "visivo" per sua stessa ammissione). In un'intervista ha dichiarato che la scrittura del romanzo gli ha dato molta più libertà di quanta gliene avesse mai dato una sceneggiatura. Nel cinema, dice, "è quasi impossibile permettersi di non pensare al mercato". Certo non si tratta di un libro "commerciale", il suo. Questa storia di dolore ambientata in una Lampedusa ideale, mai nominata, sotto un cielo che "si sta sciogliendo" e un sole "che pulsa calore e fuoco", in un mese di agosto selvaggio e brutale come l'Isola.

Se aprile è il mese più crudele, nemmeno questo scherza. Lo sanno bene i protagonisti del romanzo, pochi personaggi per un'isola dove vivono in pochi. Mario, il padre, meccanico e alcolizzato saltuario, un uomo duro, incapace di amare e con un gran bisogno di essere amato. Damiano, il figlio maggiore, che sogna di partecipare ai provini del Grande Fratello insieme al suo unico amico, Pietro, e inventa storie tragiche per poter far colpo sui giudici. E infine Salvatore, il piccolo, che ha un dente storto per colpa di una caduta provocata dal fratello e una cicatrice, una bruciatura "a forma di Australia" che il lettore non farà fatica a capire da cosa è stata provocata.

È attorno a lui, al piccolo Salvatore, che si dipana l'intera vicenda. I dialoghi, le liti, i dispetti, le cattiverie consuete fra fratelli viste con i suoi occhi, quelli della "vittima". La storia di un amore, quella tra Mario e Alice, che dal tenero vira presto al tragico, nel corsivo del flashback. Il ricordo (che non ha) della madre, e il mistero della sua scomparsa, che non risolverà mai ma che è legato alla cascina bruciata dove Salvatore - in segreto - si prende cura di un cane. Un rapporto (un'amicizia?) che cambierà questo ragazzino sensibile che per noia spappola cavallette con le mani, traghettandolo verso l'adolescenza, come nella migliore tradizione del Bildungsroman (che non è una parolaccia).

Karen Blixen ha scritto che « tutti i dolori sono sopportabili se li si fa entrare in una storia, o se si può raccontare una storia su di essi ». Luca Giordano ha scritto un romanzo sul dolore meno sopportabile, quello della perdita e del lutto. Ma l'ha scritto talmente bene da perdonargli tutta la tristezza che si prova leggendolo. Del resto, di una storia sacra come quella di Caino e Abele (lui che fa cinema lo sa bene), puoi permetterti al massimo di girare un remake, non certo un reboot.

 

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