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"Guarigione" di Cristiano de Majo

“Ci raccontiamo tante di quelle storie per poter vivere”

Joan Didion

Foto di William Eggleston

 

“Il passato, quello che vorrei intrappolare nei ricordi, è una saponetta bagnata, m’illudo di riuscire a bloccarlo tra le mani come se ogni volta mi dimenticassi della sua consistenza scivolosa”.

Cristiano de Majo è forse il maggiore esperto di non fiction in Italia. Nella rubrica che tiene su Rivista Studio, per mesi, non ha parlato praticamente d’altro. Insieme a Christian Raimo, la insegna anche, la non fiction, in un corso di scrittura organizzato da minimum fax. Un lavoro enorme, minuzioso e appassionante, che ha contribuito ad accendere i riflettori su un genere che, in Italia, sembrava interessare pochi lettori.

Viene da dire che il suo secondo romanzo, Guarigione (Ponte alle Grazie) è il frutto – spontaneo, proprio come i frutti – di tutto quel lavoro. La trama: Cristiano ha trenta e passa anni, fa lo scrittore e vive a Napoli con la sua compagna, Laura. Ha “sconfitto” da poco un tumore ed è padre di due gemelli, uno dei quali, M, è malato di una malattia molto rara: l’epidermolisi bollosa. È una storia vera.

 “Per anni sono stato un appassionato lettore di complicate costruzioni cerebrali e, anche se non sento il bisogno di rinnegare i miei vecchi amori letterari, ho la sensazione che, diventando più vecchio e accumulando sempre più esperienze, stia cercando una letteratura che mira a rappresentare la complessità della vita anche sul piano emotivo. Una letteratura che parla di dolore, di perdita, o anche di amore e di felicità in modo esplicito”

Guarigione è un racconto sulla malattia, la guarigione e, inevitabilmente, sulla morte. Almeno a prima vista. Perché man mano che si va avanti nella lettura non si può fare a meno di pensare che la “guarigione” del titolo sia una scusa per parlare (anche) d’altro, un camouflage per un discorso più ampio e, se possibile, più complesso. Qualcosa che ha a che fare soprattutto con l’identità. L’identità di un padre, che per tutta la sua vita è stato solo un figlio, l’identità dei figli che ha avuto, e che si costruirà sulla base di fattori sconosciuti (l’educazione, l’ambiente, la genetica?).

“Pensavo alla responsabilità di dare ai miei figli un passato. L’onere di costruire per loro una storia che fosse il più possibile priva di omissioni. D’altra parte, dovrei sapere chi sono. Dovrei. Cristiano de Majo, nato a Napoli il 30 dicembre del 1975, è scritto sulla mia patente, sulla carta d’identità, sul passaporto, sul curriculum archiviato in varie versioni nell’hard disk del mio computer. Ma so anche di essere una costruzione, una confezione spacchettata di mattoncini Lego, cui ho finito per dare una forma arbitraria, e che avrebbe potuto assumere un’altra forma, altre mille forme. Per questo mi viene spesso da chiedermi chi fossi da bambino”

Nell’ultimo film di Christopher Nolan, Interstellar, a un certo punto il protagonista, parlando con sua figlia, dice una frase che mi ha colpito, qualcosa come “i genitori sono i fantasmi del futuro dei loro figli”. Padre e madre hanno l’obbligo di creare dei ricordi per loro, un bagaglio che si porteranno dietro quando loro non ci saranno più. È un pensiero che ossessiona anche de Majo (e, forse, in misura più o meno intensa, qualunque genitore).

“È in fondo quello che avrei voluto fare e non ho fatto, ed è anche quello che avrei voluto i miei genitori facessero con me: mi sarebbe piaciuto leggere da grande quello che sono stato – o come venivo visto – da piccolo, mi sarebbe piaciuto che i primi mesi della mia vita non fossero del tutto scomparsi”

“Perché non possiamo ricordarci chi siamo stati? Perché i miei figli non potranno ricordarsi di adesso? E perché sono così tormentato dall’idea di fare qualcosa in modo che possano almeno sapere come io, loro padre, li vedeva?”

de Majo si domanda se non stia peccando di hybris, quando descrive con dovizia di particolari la crescita dei suoi due gemelli; se non stia sfidando “l’ira degli dei” con il suo resoconto o, cosa peggiore, la rabbia futura dei suoi stessi figli, ritratti senza consenso. Una forma di pudore che si trova raramente nel genere della memorialistica.

La volontà di abbandonare lo sperimentalismo formale del suo libro d’esordio (ne ho scritto qui) per tentare la strada del realismo si rivela una scelta felice. Un realismo che chiameremmo “magico”, se volessimo giocare con le parole, fondendo Borges e Didion, due degli autori più amati da de Majo (il vecchio e il nuovo). La Didion matura de L’anno del pensiero magico, ovviamente (“La trafila di paura e sofferenze mi consegnò nelle braccia del pensiero magico, quel pensiero che ci fa mettere in relazione fenomeni che in realtà sono del tutto scollegati”), ma anche la giovane giornalista che racconta la vita newyorchese degli anni ‘50 e ‘60 in Verso Betlemme.

Il romanzo di de Majo oscilla tra il memoir e un circoscritto esempio di autobiografia, come Emmanuel Carrère in Vite che non sono la mia La vita come un romanzo russo; o Philippe Forest ne L'Enfant éternel (in italiano Tutti i bambini tranne uno) e Tous les enfants sauf un. O ancora il Philip Roth di Patrimonio.

Guarigione è un libro insolito, per il pubblico italiano. Un racconto sul dolore, la malattia e la guarigione (tutti temi di gran moda, di questi tempi) che si smarca, però, dai vari Gramellini, Battista e compagnia - autori di manuali e best seller di successo - per un aspetto fondamentale: la letteratura.

Guarigione è un’opera letteraria di innegabile bellezza. Qualcosa che siamo sempre meno abituati a leggere, ma di cui abbiamo un estremo bisogno. 

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