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Quando i bambini siriani non vanno a scuola

Li trovi ad elemosinare per le strade di Beirut. Sognare l’educazione significa finire tra il martello dello Stato e l’incudine della famiglia.

di Gian Marco Liuni

Abdullah è un robusto ragazzino di 11 anni originario di Daraa, in Siria. La sua scuola sono i pub del quartiere di Gemmayze dove vende rose a facili prede in euforia per la movida di Beirut. Alle sue spalle ci sono gli amici Shadi e Ammar, intenti a lucidare scarpe seduti su un barattolo di latta. I tre condividono un piccolo appartamento a Harissa, lontano dalla capitale. Insieme ad altre quattordici persone.

Abdullah e i suoi amici sono gli “street children”, i bambini di strada. Passano le giornate per le vie di Beirut a vendere rose, pacchetti di gomme da masticare, fazzoletti. I più esperti hanno il diritto di appostarsi di fronte alle banche, pronti per lucidare le scarpe al primo incravattato che lo richieda. Per loro il sogno di studiare è stato messo in un cassetto dai genitori molto tempo fa. E ci è rimasto.

«A scuola non sono mai andato e non voglio andarci» – dice Abdullah. Da piccolo era curioso di sapere perché gli altri bambini fossero così contenti di andare in classe. Poi il padre gli ha raccontato che lì si viene picchiati, specialmente se si è grassottelli come lui, così oggi cerca divertimento nelle poche sorprese che la strada può riservare.

In mancanza di statistiche ufficiali, le organizzazioni non governative (Ong) che si occupano del fenomeno dei bambini di strada ritengono che le storie come quelle di Abdullah siano sull’ordine delle migliaia in Libano. Secondo dati dell’Onu, i rifugiati siriani in Libano hanno superato quota un milione e cento persone.

Secondo Insan – una Ong libanese che offre istruzione gratuita agli street children – i bambini che chiedono di andare a scuola per sfuggire alla strada incontrano diversi ostacoli burocratici e culturali. La sfida più grande è doverlo dire alla propria famiglia.

«I genitori sono terrorizzati all’idea di poter perdere una fonte di sostentamento così immediata e necessaria. In moltissimi casi l’unica fonte di reddito» – dice Randa Dirani, che per l’Ong cura le pubbliche relazioni.

Per Randa il problema principale si trova nella logica comunitaria. La maggioranza è turcomanna e secondo Randa «questa comunità non vede di buon occhio l’istruzione». Per questo, afferma: «I padri inventano brutte storie per screditare la scuola, ricorrendo alle mani per i bambini che insistono nel voler provare per credere». Alla scuola di Insan alcuni allievi frequentano le lezioni senza dirlo ai propri genitori.

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«Di solito si avvicinano incuriositi dallo scuolabus che gira per Beirut. Chiedono se sia davvero gratis e se possono venire quando se la sentono loro. Scelgono di venire dalle tre alle sei del pomeriggio, l’orario in cui si incassa meno dai passanti». Incominciano con una volta alla settimana, ma poi accade che vadano tutti i giorni, attratti dalla facilità con cui si può accedere allo studio, ai giochi o semplicemente all’acqua con cui lavarsi le mani e rinfrescare la faccia.

«I primi mesi scoprono che si deve alzare la mano prima di parlare. Poi che si smette di giocare quando la maestra richiama allo studio». Una volta capite le regole del gioco – assicura Randa - i ragazzi di strada «sono gli studenti più brillanti e assidui».

La loro motivazione è più profonda di quella dei loro coetanei. Secondo la polizia libanese in centinaia entrano da piccoli in un circolo di sfruttamento fisico, sessuale e di violenza da cui escono come criminali. Poter accedere all’istruzione è per loro il primo passo per tagliare ogni legame con la rigida mentalità comunitaria ed evitare di ripetere un copione che conoscono fin troppo bene.

Da parte sua, le carenze del sistema scolastico libanese contribuiscono a questo fenomeno.

In virtù dei profondi legami bilaterali tra i due Paesi, i bambini siriani possono legalmente frequentare le scuole libanesi. Ma ogni anno migliaia di loro non trovano posto nelle affollate istituzioni pubbliche, una situazione aggravata dall’arrivo dei 250 mila profughi in età scolare – secondo le stime delle Nazioni Unite.

«I genitori inviano la domanda d’iscrizione. Questa viene respinta perché non c’è più spazio nella scuola. Non si trova posto neanche nei corsi pomeridiani aggiuntivi creati dal ministero dell’Istruzione appositamente per i bambini siriani» – commenta Lala Arabian, avvocato, esperta di diritti umani e dirigente esecutivo di Insan. A questo fanno da ulteriore deterrente i circa 70 euro annui di retta, spesso da moltiplicare per cinque o magari sette figli.

Dimenticati dallo Stato e ostacolati dalle famiglie. È così che i bambini finiscono per ingrossare l’esercito dei mendicanti che pattugliano la strada, dove i passanti insegnano loro che si meritano quella condizione perché incivili. Come se vivere nell’ignoranza fosse stata una scelta voluta e desiderata.

Prima che Abdullah si avvii verso Harissa, quattro appariscenti ragazze libanesi gli offrono un succo di frutta alla fragola. Timidamente lui fa notare che costa ben 2.000 lire libanesi in più di uno dei suoi fiori – circa un euro. Raccogliendo il suo coraggio, passa in rassegna le ragazze attonite e regala a ognuna una rosa rossa. Oltre a una lezione su cui riflettere.

 

Foto in alto: Freedom House/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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