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Privateering: la malinconia di Mark Knopfler fra blues e musica celtica

Una spiegazione per la notorietà cittadina dei Dire Straits si può trovare nel fatto che i nottambuli cercano spettacoli senza intimidazioni. Loro offrono questo, magari suonando al Marquee, quasi ignari della presenza del pubblico. Il loro spettacolo è sprovvisto di teatralità, ma possiede un’energia che incute timore. Non sono soltanto degli eccellenti musicisti con radici blues (J. J. Cale, Dylan e Lou Reed), ma il cantante-chitarrista Mark Knopfler (il migliore dei quattro) trasuda un’aura di malevolenza. C’è una malinconia evidente nel suo modo di suonare intricato e nella sua voce scura e altisonante”.

Da quel giorno di aprile del 1978 ne è passata di acqua sotto i ponti. I Dire Straits, dopo sei dischi di grande successo, si sono sciolti e Mark Knopfler ha avviato una brillante carriera solista che è ormai giunta, con l’uscita lo scorso 3 settembre del nuovo disco Privateering, all’ottavo album. Quell’aria di malevolenza ravvisata da Tony Stewart, giornalista del New Musical Express, è ormai venuta meno lasciando il campo a uno stile più sobrio ed elegante, ma quella “malinconia evidente” è rimasta il carattere distintivo del modo di suonare e cantare di Knopfler. 

Basta ascoltare brani come Privateering, Radio city serenade, Yon two crows o Dream of the drowned submariner (solo per citarne alcuni) per percepire quella profonda nostalgia che è l’anima segreta di ogni vera arte. Il nuovo album di Mark Knopfler si rivela dunque ispirato come al solito, un’ispirazione che si nota anche nel numero dei brani: 20 canzoni distribuite su 2 cd che testimoniano una vena creativa che, con il passare degli anni, più che esaurirsi si arricchisce. 

Per chi è abituato ai dischi dell’ex-leader dei Dire Straits si comincia in modo insolito: ad aprire l’album non compare il solito brano d’impatto (alla Border reiver o alla Why aye man per intendersi), ma un pezzo lento, Redbud tree, che ci parla di un soldato che durante la guerra trova rifugio sotto le fronde di un albero. Siamo di fronte a un incipit che introduce fin dall’inizio le caratteristiche del nuovo disco: il vecchio rock targato Dire Straits è ormai alle spalle (l’unica eccezione è Corned beef city) e lascia lo spazio a brani folk che ci accompagnano in un viaggio affascinante fra l’Europa e l’America, alternando influenze celtiche (Haul away e Yon two crows) e blues (Don’t forget your hat e Hot or what). 

Talvolta i due stili si intersecano, come nel caso della title song Privateering, una canzone sulle avventure dei corsari che è in realtà la metafora della vita on the road di Knopfler. Per un approfondimento sulla musica e il testo di Privateering vedi Privateering di Mark Knopfler: In mare in compagnia del capitano.

Il secondo cd si apre ancora con la musica celtica (Kingdom of gold), ma il vero protagonista del disco è, forse inaspettatamente, il blues, mai così presente e convincente nei dischi precedenti di Knopfler. Particolarmente da apprezzare sono Got to have something, che ricorda la Rollin’ and thumblin’ versione Eric Clapton, e Bluebird, uno slow blues dove è protagonista una sorprendente fisarmonica, ma non sfigurano affatto anche pezzi come Gator blood e Today is okay

C’è spazio anche per due perle che si allontanano dal blues per spalancare un’orizzonte di nostalgia e tenerezza infinito. La prima è Radio City Serenade, una serenata metropolitana arricchita da un raffinato arrangiamento di pianoforte e sassofono (dopo qualche anno torna una vecchia passione di Knopfler); la seconda è Dream of the Drowned Submariner, una delle melodie più toccanti dell’intero album. È proprio in brani come questi due che, forse più degli altri, si percepisce quella “malinconia evidente”, quella profonda nostalgia che colpì il giornalista Tony Stewart tanti anni fa. Ad anni di distanza è così anche per noi. Ancora una volta. Grazie Mark. 

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