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Primavera a Tindouf: un viaggio tra i saharawi

Uno dei primi aneddoti che mi ha raccontato Nadel riguarda la sua esperienza teatrale in Europa con Pippo del Bono, in particolare di quella volta in cui un’altra attrice della compagnia gli ha chiesto di mostrargli il suo pene circonciso e lui – lo dice ridendo e mimando con cadenza emiliana – rintanatosi con lei in un bagno pubblico, ha sperato in un qualche gesto di gratitudine consequenziale.

E quindi no, da quel momento, ai miei occhi i saharawi non potevano essere semplicemente il popolo degli esiliati, i cacciati dalla terra del Sahara Occidentale, dal Marocco, e divisi da un muro di sabbia e mine; né gli ex coloni del re di Spagna, né ancora una causa di conflitto tra il medio oriente e l’occidente, o ancora dei musulmani moderati – progressisti, come piace etichettarli a certa stampa e come li additano pure certi estremisti di queste parti per le libertà di cui godono le donne.

Una comunità che attende: ciò che ho sentito visitando i campi di Tindouf non è il sentimento di perdita che accompagna le rinunce – sono qua perché non posso combattere ancora una guerra, non ne ho gli uomini, le forze, gli armamenti, e sono sconfitto, sì, sono uno sconfitto, questa è la mia resa – ma di sottrazione.

Vivono per sottrazione, ecco, a Smara a Dakhla o a Aaaiun, il rituale quotidiano non ha a che vedere con le azioni ma con le detrazioni; metti, per esempio, i soldi delle adozioni a distanza e queste madri con il capo coperto che si presentano a ritirarli ogni volta con figli diversi – e allora scatta l’interrogatorio: tu chi sei ma questo non è il bambino dello scorso anno, guarda la foto, è diverso, dov’è, dov’è l’altro bambino, va a prenderlo, prendi tuo figlio, questo non è tuo figlio – e si affannano a difendere una genealogia fasulla, a motivare un’assenza se proprio messe all’angolo, e imprecano quando riescono a ritrovare, vagando per il villaggio, il ragazzino dell’altro anno mentre tornano indietro prendono la busta e si allontanano con il denaro.

E, partecipando a questo sentimento di detrazione, il figlio inventato sostituito in nome di una continuità comunque fittizia o l’ibrido sessuale che si diventa tra una sintassi erotica e l’altra, ora in questa terra degli islamisti impuri, ho dovuto più volte combattere con l’impulso a urlare "Scandalo scandalo scandalo". 

E non che ci sia un’immagine, un fatto di cui scandalizzarsi, ne mancano i lineamenti precisi, ogni cosa si sbava nel tempo, un tempo lento. Ho passato così tante ore seduta nelle tende con le donne a bere tè da risultarmi impossibile preoccuparmi della situazione femminile; come le donne vivano in questa terra, in mezzo al deserto, e da esiliate, è un problema in Italia, qua è semplicemente la vita, è come pensarci, noi occidentali, un secolo fa e non che non ci sia stato miglioramento – è palese – ma la storia è la più forte delle riabilitazioni, anche quando conferma un orrore.

Leggendo del popolo saharawi mi ero già imbattuta nel racconto del rituale del tè: entri in una casa da straniero quelli ti mettono a sedere – non prima di averti obbligato a togliere le scarpe (io, per esempio, me la sono cavata – anche grazie al mio traduttore Nadel – con la scusa di una dermatite da contatto violenta) – e ti offrono per tre volte un bicchierino caldo e schiumante: la prima volta “amaro come la vita”, la seconda “dolce come l’amore” e l’ultima “soave come la morte”.

Con quel modo commovente di chi vive di carità cristiana e mette una vicina alle altre le parole "vita amore e morte" che però non mi ha commosso affatto; mi ha commosso, invece, l’esser testimone di una lentezza rispettosa, quella sì dolce, nell’accendere i carboni, far bollire l’acqua a fuoco lento, rincarare o dimezzare la quantità di menta, di foglie di tè e di zucchero. Ero così rapita dai movimenti colmi di attenzione delle femmine da pretendere che con quelle stesse mani mi truccassero, mi pettinassero e mi vestissero affinché, come l’acqua messa a bollire le foglie contate e un po’ di miele in abbondanza, mi sentissi – ferma nel loro tempo lento di cura – io stessa necessaria.

E a differenza di un corto di quasi una ventina di anni fa girato nei campi da Mario MartoneUna storia Saharawi, il titolo – in cui un bambino viene morso da un serpente velenoso e il padre affronta un lungo viaggio per cercare un medico e salvarlo, non mi sembra che il tempo (soprattutto quello materiale dell’azione) li condanni ma, al contrario, li assista. Non a caso i momenti in cui mi sono sentita ridicola hanno a che fare con l’ansia, con il terrore che prima di tutto agisce sulla percezione che si ha dei secondi e dei minuti (misura che nessuna civiltà ignorante l’esistenza della catena di montaggio e del trapianto di cuore ha il dovere di conoscere).

Quando sono atterrata all’aeroporto militare di Tindouf, Nadel (questo giovane uomo con trascorsi da attore piuttosto basso e magrolino con gli occhi sgranati e i denti storti scalfiti dalla carie – sono un segno distintivo del popolo saharawi – vissuto per quasi metà della sua vita a Bologna per poi tornare qua, sposare, figliare e deprimersi, oltre a fare da traduttore per italiani venuti ad imparare il senso della vita e della solidarietà o, come me, senza obiettivi particolari) mi aspettava con un amico per portarmi al villaggio a bordo di una gip bianca.

Bisognava seguire una carovana di auto con a capo un comando militare, una scorta, per ragioni di sicurezza, e non nascondo di aver percepito una punta di cinismo compiaciuto nel procedere lento di Nadel, nell’allontanarsi dal resto del gruppo in modo che mi risultasse difficile, non solo sentirmi protetta dai fucili della milizia, ma anche consolarmi con le sagome dei miei connazionali seduti nella gip precedente e di venti trenta altre sagome di spagnoli con cui avevo volato da Algeri a Tindouf.

Mai strada mi è sembrata lunga come quella che porta a Smara, forse una quarantina di minuti, ora non sono in grado di dirlo con esattezza, di pensieri spaventosi, voglia di urlare a ogni parola pronunciata in arabo, di pretendere di scendere e farsela a piedi nel deserto, o più semplicemente di ammettere di essere spaventata e pregare il conducente, Nadel, di avvicinarsi alle altre auto; invece, pur terrorizzata, non solo ho dissimulato l’ansia – erano pur le tre di notte e il deserto buio come non ho mai conosciuto il buio prima – ma mi sono persino concessa qualche battuta sulla bellezza della luna e il clima mite.

Così una volta arrivati nella casetta dove avremmo passato la notte l’adrenalina mi aveva reso tanto stupida da credere le piccole finestre basse, invece che coperte da tendine, murate e di poter evitare un sequestro (sì, sequestro: ero certa che quei due estranei arabi mi avrebbero tenuta rinchiusa lì per almeno sei mesi e lo vedevo il volto devastato di mia madre mentre si faceva largo tra i giornalisti senza rispondere a nessuna domanda; quanto bene ho scoperto di volerle in una situazione inventata in cui per caso mi sono imbattuta nella sua vera natura di madre del sud protettiva e arcaica) staccando il lucchetto appeso all’esterno della porta della mia camera e nascondendolo sotto una pila di tappeti. Risvegliandomi, con la luce e l’economia della stanza chiara e onesta ho riso, ho telefonato in Italia e ho riso raccontando l’accaduto e dichiarandomi idiota. Quanta liberazione nella parola "idiota".

Nadel ha una figlia, in italiano il suo nome sarebbe Stella. Lecca gli involucri delle caramelle e ti guarda fisso negli occhi, non puoi fare a meno di chiederti se quel patetismo, quella sintassi della richiesta di carità sia connaturata, la imparino con il latte materno, una forma di estorsione innata e violenta. Anche il suo modo di giocare con le ciotole da riso con la sabbia – travasare granelli da una più grande alle altre più piccole, per ore – sembrerebbe un sottile ricatto se non fosse che si diverte davvero. La prima volta che mi ha incontrata, Stella, puntandomi il dito contro ha detto "Babati"; ho chiesto al padre cosa significasse, una parola che ha inventato per indicare voi italiani, ha risposto.

Credevo, l’ho creduto per qualche ora, prima che abbandonassi la tenda e le donne della famiglia di Nadel, che "babati" associato agli italiani avesse a che fare con la bellezza, invece no, o almeno non in forma esclusiva. Se sei un babati, sei come un ramoscello sottile spuntato nel deserto, come il cucciolo di un animale, sei delicato. Ogni cosa, là nel Sahara, ti minaccia, ti spiazza, ti spaventa. E io ero un babati perché più di tutto ho provato paura.

Ho avuto paura dell’intera giornata passata seduta con le donne, di dimenticarne la misura, paura che mi piacesse quella dimenticanza; ho avuto paura che mi sequestrassero ogni volta che mi sono spostata da un villaggio all’altro, che il mio cellulare non avesse linea, che il mio mondo – quello che vivo in Italia – diventasse a sua volta una dimenticanza, che l’Africa mi divorasse; ho avuto paura della spilla da balia con cui mi hanno truccato l’interno dell’occhio all’henne; paura della carne di cammello; paura della loro acqua. Ho avuto paura di essere nel ventre del mondo e che quello non fosse il passato, o la condanna, di alcuni ma fosse il futuro di tutti.

Ho avuto paura, terribile paura, di quella collettività isolata non solo dalla propria terra ma dall’idea stessa di una terra propria; ero terrorizzata che quella coscienza di classe collettiva cresciuta nella povertà e su un senso assoluto di sacrificio avesse un’altra motivazione ancora oltre alla guerra e alla fame, sì, ma quale.

Una sorta di coscienza di classe di natura, di questo ho avuto paura.

 

foto: Stefano Montesi

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.175) 11 settembre 2013 15:04

    ho letto questo articolo, sono sinceramente imbarazzato per te, partita dall’italia con la supponenza di chi si crede una grande scrittrice, fondamentalmente invece noncosciente dei propri limiti.
    evito di fare ragionamenti sull’etica del viaggiatore (una che parte e che in una settimana capisce tutto, oppure guarda sta stronza con che moneta ripaga chi l’ha ospitata a casa sua,)
    o machistici (secondo me si è incazzata perchè nadel il suo pene circoinciso non l0 ha fatto vedere a lei), ma:

    perchè aprire con questo aneddoto che immagino il tuo traduttore ridendo ti avrà fatto, quello che per una mente non malata come la tua poteva essere.

    qual’è il senso nell’insistere sulla tua cafonaggine e scrivere che ti sei inventata una balla per non toglierti le scarpe, sopra i tappeti (come è loro tradizione).
    oppure insistere ancora se qualcuno avesse avuto dei dubbi sulla tua mente malata che davanti ad una bambina che succhia i resti di una caramella, che a tutte le persone normali avrebbe trasmesso un senso di tenerezza a te ha fatto pensare ad una richiesta di carità innata imparata con il latte materno

    e poi una curiosità a questo nadel, hai per caso chiesto dimettere i cazzi suoi in piazza? o di parlare di sua figlia in questo modo?, e poco conta se hai storpiato il nome cambiando una consonante, credo che ilrispetto delle persone parta da li.

    per cui conclusioni: la tua mente è bacata.

  • Di (---.---.---.196) 13 settembre 2013 22:00

    A parte che ti spacci per giornalista ma scrivi in maniera pessima, comunque noi tutti vorremmo sapere come in una settimana sei riuscita a capire il senso della vita. Per chi, come noi, il Sahara e il popolo Saharawi lo conosce davvero e da tempo, leggere questo articolo è una bestemmia. Come si può parlare di qualcosa che non si conosce con così tanta superficialità?? E’ inutile andare a km di distanza se non si riesce ad andare oltre ai propri pregiudizi. Comincia ad aprire la mente, pensa, poi magari scrivi. 


  • Di (---.---.---.39) 14 settembre 2013 13:03

    Provo a dare ordine a tutte le cose che vorrei dire.

    Innanzi tutto ti dico chi sono. IO scelgo di farlo, non scegli tu per me.

    Faccio parte di un’associazione che si occupa di solidarietà col popolo Saharawi da quasi tutti gli anni della tua vita.

    Realizzo, come volontaria, da 3 anni progetti di cooperazione.

    Sono scesa ai Campi Saharawi 4 volte per periodi di 15/20 giorni,

    credo pertanto di conoscere la realtà di cui tu parli meglio di te, sicuramente abbastanza da notare che in qualità di giornalista (?), scrittrice (?), il tuo scritto manca di molte informazioni utili a capire di quale realtà geografica, politica e umana tu stia parlando.

    Leggo, rileggo e penso ad una parola: rispetto.

    C’è un’etica del giornalista, una del viaggiatore e una dell’incontro umano.

    Peccato non trovarne neanche una tra i tuoi pensieri.

    Ho riscontrato vistose falsità, che peraltro infangano il lavoro di anni, fatto da alcuni (le modalità di scorta degli stranieri, a seguito del rapimento di Rossella non sono quelle che tu racconti, le modalità di realizzazione dei progetti di adozione a distanza, ecc.) e non credo che questo abbia a che fare col lavoro del reporter o del giornalista, al punto da sembrarmi una mancanza di rispetto nei confronti di chi onora questi mestieri, anche a prezzo di pericoli e sacrifici personali.

    Un mio docente universitario (di cui mantengo la privacy per rispetto) diceva spesso: “chi è martello tratta tutti come chiodi”. Il viaggiatore (o lo scrittore, che a suo modo viaggia nelle storie e nelle esperienze) sa che incontrerà una diversità, viaggia per assecondare questa curiosità, per soddisfare questo bisogno. Che senso ha incontrare tradizioni, abitudini diverse, facce diverse in luoghi altri da quelli a cui apparteniamo se tutto quello che sappiamo fare è giudicare questo come sbagliato, e solo perché non lo conosciamo e ci spaventa?

    Alcuni dei sentimenti di cui parli li conosco, li ricordo legati soprattutto al primo viaggio ai Campi: la sensazione di piccolezza e fragilità, il diverso scorrere del tempo. Oggi capisco la paura. Ma mai, ho permesso che la mia paura e il mio sentire deformassero la realtà che incontravo. Credo debba essere così. I bambini sono bambini ovunque. Hanno sguardi che indagano, giocano con poco e golosi, leccano i dolci. Perché voler vedere in quella bimba, solo perché è lì (nel posto dove si è scelto di andare consapevolmente ,spero) e perché siamo spaventati dai nostri pensieri, qualcosa di oscuro, preparato, malvagio? Insomma, tutto il contrario di quello che sono i bambini? Ho anche pensato che in fondo non ci sono molte differenze tra te e la bimba: non è stato forse anche il tuo uno sguardo così, davanti a ciò che non conoscevi e temevi? La differenza avrebbe dovuto essere nella capacità di consapevolezza e soprattutto nella tutela. Non si rendono le persone riconoscibili, non si rende un minore riconoscibile, questa è una vergogna e tu ti devi vergognare di questo. Se devi andare nel mondo e dare a tutto e tutti la forma delle cose della tua vita di sempre, stai a casa tua, scrivi della realtà che conosci. Non è obbligatorio avere paura, viaggiare, sperimentare. A mio avviso però è obbligatorio avere rispetto.

    Lo scandalo, di cui tu parli, è negli occhi di chi guarda.

    Hai perso una grande occasione umana e professionale, mi dispiace per te, ma soprattutto per coloro che hanno dovuto incontrarti.

    Io cammino scalza in casa e d’estate nei ristoranti, sotto il tavolo spesso mi tolgo le scarpe, è più forte di me! Adoro mangiare con le mani. Ho 40 anni e se mi dai il dolce giusto sono capace ancora di leccare il piatto (ho 1000 foto da bambina così). Non ho il pene circonciso, anzi non ho il pene, ma posso raccontarti lo stesso qualche aneddoto pruriginoso, di quelli che ti impressionano tanto.

    Vivo nella tua stessa realtà e so usare i tuoi stessi strumenti.

    Perché non scrivi di me?!

     

  • Di (---.---.---.86) 25 settembre 2013 09:36

    Buongiorno,

    leggendo l’articolo mi sono realmente arrabbiato ed offeso. Sono un cooperante dei campi da anni e conosco la persona citata molto bene oltre che essere il cofondatore della mia associazione. Trovo vergognoso, irrispettoso e indegno leggere quanto te scritto in merito a confidenze fatte ai campi. Ma ti rendi conto del fatto che certe cose sono notizia della sfera privata e che non vanno in alcun modo rese pubbliche?

    Nello specifico è da censura e violazione della privacy la prima frase!!

    In più ho l’impressione che del Popolo saharawi non hai capito molto.

    Ti permetti di giudicare famiglie intere, parli di genealogia fasulla, ibrido sessuale, sintassi erotica, islamisti impuri.

    Dichiari che con una scusa non ti sei tolta le scarpe dimostrando poco rispetto per la loro cultura.

    Sostieni che il tempo li assiste!!

    Descrivi il mio amico in modo davvero osceno!

    Parli di sua figlia dicendo che lecca involucri di caramelle, parli di patetismo, richiesta di carità. Cose che non appartengono alla sua famiglia ne al popolo intero!!

    Tu hai scritto tutto questo per te...ma non hai minimamente cercato di capire questo popolo ne di descriverlo ma ti sei imbrodata di te stessa.

    Sconfesso nel modo piu assoluto quanto hai scritto e mi riservo di avvisare gli organi di competenza.

    Andrea Maschio

     

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