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Più politica e meno finanza, più stato e meno mercato per salvare l’Europa

Il rischio della manovra degli Stati europei contro la crisi, è la sua inutilità, giacché essa trascura il contesto in cui si colloca. Un contesto rappresentato dal processo di globalizzazione, e dall’attacco della finanza agli Stati per la supremazia, che li pone di fronte al dilemma: dominio dei mercati sugli Stati o dominio degli Stati sui mercati? La crisi si risolve con la condivisione solidale dei debiti degli Stati, una Bce costruita a misura della Federal reserve, l’incremento della domanda.

Il tutto in un quadro strategico che ha, come obiettivo principale, gli Stati uniti d’Europa, la costituzione di un governo europeo, per la realizzazione e lo sviluppo di un intervento pubblico nell’economia, che nazionalizzi le banche e costituisca, con le imprese strategiche, un sistema a partecipazioni statali, europeo. Più politica e meno finanza: le norme contro la speculazione. Il degrado politico economico, politico e sociale in cui versa l’Europa mediterranea, sono la testimonianza e l’accusa dell’egoismo del sistema finanziario figlio di un capitalismo malato, e dell’incapacità della politica, figlia dell’abbandono delle ideologie, del trionfo del pragmatismo e del mito della società civile. 

La speculazione finanziaria, quella dei fondi di assalto e delle banche multinazionali , e il basso livello della classe politica europea, sono i responsabili della crisi in cui versa l’Europa. La speculazione, perchè ha allargato il suo raggio di azione per la supremazia, dalle aziende agli Stati, e così attaccato ed indebolito i bilanci pubblici.

La politica, perchè troppo ripiegata su se stessa, in patria, sui suoi interessi elettorali, in Europa, sui suoi interessi nazionali, è incapace di dominare gli eventi e per questo si affida inerme ai suoi carnefici, alla tecnocrazia che è il cavallo di troia della speculazione.

Per far fronte all’attività speculativa, l’Europa è impegnata oggi in un processo di austerità e domani in un processo di crescita, che individuano una strategia difensiva, che tampona il male, ma non lo estirpa, non lo sconfigge, perchè non va al cuore del problema, che si ritrova negli scopi e nelle finalità dell’investimento finanziario.

Fino ad ieri, quando la speculazione attaccava solo le imprese, la crescita e i conti in ordine avevano un senso, davano tranquillità ai mercati e con essa, tassi di interesse moderati. Oggi non è più così, perché l’obiettivo del sistema finanziario, non è solo un profitto sicuro, la sicurezza del ritorno del capitale, ma sopratutto la supremazia della finanza sulla politica e quindi sugli Stati.

 Un mutamento di scopo che deriva dall'esigenza delle banche di trasferire agli Stati, le loro difficoltà per i rischi di insolvenza per prestiti non garantiti da riserve.

La solita operazione, pubblicizzare le perdite e privatizzare i profitti è iniziata attraverso una manipolazione mediatica, che ha enfatizzato il peso della spesa sociale,e le responsabilità della politica sulle difficoltà dei bilanci statali e celato il peso degli errori gestionali e le responsabilità delle banche. Le difficoltà dei bilanci degli Stati sono dovute all’eccessiva spesa sociale e non alla spesa per il salvataggio e il sostegno delle banche in crisi. E così è stata mascherata la crisi nata dagli istituti di credito, con la crisi del debito pubblico. I rischi di insolvenza e le perdite delle banche sono diventati difficoltà dei bilanci statali. E per legare a filo doppio, il destino delle banche con il destino degli Stati, occorreva far toccare con mano l’impossibilità di una normale vita economica della gente, senza il prestito bancario e quindi l'ineludibilità del loro salvataggio.Queste le ragioni della restrizione del credito alle imprese e alle famiglie. Su questa base così costruita la soluzione, non poteva non essere l’aiuto finanziario alle banche e la riduzione della spesa sociale.

Una riduzione ingiustificata in un'economia in recessione, dove vi sono salari da fame e aumento della disoccupazione e che ha sbagliato bersaglio perché non è la spesa sociale la causa della crisi. In realtà le difficoltà dei bilanci pubblici sono state causate da quei 4 trilioni di euro utilizzati per salvare gli enti finanziari  e alimentate dall’incremento dei tassi dei BTP, ottenuti con l’uso sapiente dei rating delle agenzie. E così una crisi privata che nasce dalle banche e che si sviluppa per salvare le banche,diventa la crisi del debito pubblico e quindi degli Stati.

Un’operazione resa possibile dalla duplice veste di politici - ieri Polson in USA, Papademos in Grecia, oggi Monti e Passera in Italia - e di azionisti delle agenzie di rating, assunta dai managers delle banche. Nella veste di politici, con i soldi degli Stati finanziano le banche, ma non gli Stati stessi, nella veste di azionisti delle agenzie pronunciano rating negativi che inducono tassi di interesse più alti sui BTP. E cosi trasferiscono il rischio di insolvenza dalle banche agli Stati, al punto che Merkel e Sarkosi, pronunciano quella frase infelice “anche gli Stati falliscono”, che rappresenta l’atto di resa della politica alla finanza.

In questo modo inizia l’attacco alla supremazia della politica. Oggi la speculazione lancia messaggi politici, con l’obiettivo di condizionare maggioranze e politiche economiche, al punto che pone le nazioni di fronte al dilemma: dominare i mercati o essere dominati.

In questo tipo di lotta l’austerità e la crescita, sono le armi più adatte?

L’austerità frenerà la speculazione, e con essa l’aggressione contro gli Stati , perpetrata attraverso le società di rating ?

L’austerità nasce da una constatazione reale della sussistenza di sprechi, specie nell’Europa mediterranea, ma anche da una falsa interpretazione della crisi, per la quale la sua causa risiede nell’eccesso di spesa sociale e non nel sistema finanziario.

Ma l’austerità ha, fino ad oggi, prodotto solo recessione, borse in caduta e alti rendimenti dei titoli e quindi favorito la speculazione.

Occorre frenare la recessione e quindi sviluppare la crescita.

Ma il problema è quale crescita e come svilupparla e se essa frenerà la speculazione e con essa l’aggressione contro gli Stati, perpetrata attraverso le società di rating. Occorre sviluppare e definire la crescita in termini compatibili con il processo di globalizzazione e quindi predisporre una politica industriale che individui i settori da conservare quelli da dismettere.

E tutto ciò postula un intervento dello Stato nell’economia, in termini di regolamentazione della finanza e di disegno di una politica industriale, definito secondo i criteri suggeriti dal processo di globalizzazione.

Certo la crescita potrà limitare i danni, ma non risolvere il problema, se gli Stati non attaccano la speculazione, non si preoccupano di regolamentare la finanza ombra, che nella UE rappresenta il 28% del totale della intermediazione, ne di frenare il credit crunch.

Quali limiti normativi sono stati posti all’attività speculativa? Al momento esiste solo un impegno a tassare le transazioni finanziarie. Un impegno che si può ridurre ad una bolla di sapone, se la tassazione è di basso livello e investe una sola area geografica. In questo caso essa non sarà in grado di scoraggiare la compravendita dei titoli. Che cosa ha impedito e impedisce agli Stati di proibire per legge, l’attività speculativa degli istituti di credito? Che cosa ha impedito e impedisce agli Stati, quantomeno, di ripristinare la legge che distingueva le banche di affari da quelle per il prestito alle famiglie e al consumo. Che cosa ha impedito e impedisce agli Stati e alla BCE di controllare l’uso da parte delle banche, del danaro dalla stessa elargito con tanta generosità al tasso dell’1,5%?

Ma questa è la politica che ha dimenticato il suo potere di nazionalizzare le banche, di vietare alle banche l’attività speculativa, di annullare i debiti, di dilazionarli. Insomma una politica che ha dimenticato la forza del suo potere legislativo, in grado di debellare la speculazione e il liberismo antistatale e quindi di dominare i mercati.

Niente di tutto questo, ma solo austerità e crescita. Una strategia questa, che si colloca all’interno della logica capitalistica, di cui è imbevuta l’attività speculativa.

L’austerità e la crescita sono due aspetti di una medesima linea, che presuppone l’ineluttabile dominio dei mercati e l’impossibilità per lo Stato di dominarli. Dominio che ieri si esprimeva nella libertà d’impresa regolata dallo Stato, oggi si esprime in un'attività speculativa senza regole, a cui si fa fronte, non con le norme che la disciplinano, ma con risposte rigoriste e recessive, dagli stessi mercati suggerite, prontamente adottate dagli Stati, anche se incapaci di produrre risultati.

E intanto inarrestabile,va avanti il processo di supremazia della finanza sulla politica, che ieri si esprimeva attraverso la troika, oggi direttamente con le società di rating, che sono aziende controllate da banche. Fino ad ora è stata la troika (BCE ,FMI,Commissione UE) una struttura burocratica senza autorevolezza e visione politica, a condizionare, con la paura dello spread e facendo leva sul bisogno di solidarietà dei Paesi in crisi, la politica degli Stati.

Oggi sono le agenzie di rating, semplici società private, espressione del mercato, a condizionare la politica degli Stati.

Ieri era la Troika a dettare il programma all’Italia, a costringere il governo greco a non indire un referendum sulle restrizioni UE, a influenzare le elezioni di questo Paese.

Oggi sono le agenzie di rating, società private partecipate dai soggetti che fanno compravendita dei titoli e quindi espressione del mercato speculativo, a imporre al nostro Paese programma e maggioranza di governo,con la forza del loro giudizio che viene normativamente assunto, a base per le adozione di provvedimenti di atti da parte di organismi europei.

Nell’ultimo rating di Moody’s sull’Italia, si difende il programma e il governo Monti dai rischi connessi alle prossime elezioni. “Le prospettive politiche del prossimo voto di primavera, incrementano le probabilità di un giudizio negativo, per i rischi, che esse determinano, di attuazione delle riforme montiane” ha detto Moody’s.

Il giudizio positivo sul nostro Paese viene subordinato all’attuazione del programma Monti e alla vittoria ,nelle prossime elezioni, di una compagine filomontiana.

Insomma l’agenzia usa il suo rating, come una clava per imporre il programma Monti e dopo il voto di primavera, una maggioranza di governo di centrodestra. Ciò determina una situazione insostenibile per l’Europa, perchè, oggi, è sotto attacco la sovranità non solo dell’Italia, ma di tutti i Paesi europei , inerme sotto la spada di Damocle della speculazione. Un fatto rivoluzionario, non colto dalla politica italiana e da quella europea.

E allora se si guarda la situazione pragmaticamente occorre prendere atto che il problema non è il debito, ma la speculazione. Gli Stati hanno fatto tanto per frenare il debito, ma non hanno fatto niente per frenare la speculazione finanziaria ed incentivare la crescita.

Il fatto è che i partiti europei pensano alle elezioni e non ai problemi dei paesi e come fabbriche di consenso sfornano ricette, per incrementare voti e non soluzioni per i problemi dell’Europa. Basta pensare al peso della prossima scadenza elettorale sulla politica di austerità della Merkel, che fa felice la Bundesbank e i grandi elettori alla stessa collegati, ma non L’Europa. I partiti, impegnati in continue campagne elettorali, contrabbandano spot elettorali con soluzioni. E quando sono costretti ad affrontare i problemi reali, adottano misure compatibili con i sondaggi, confondendo la politica con la tecnica pubblicitaria. Utilizzano poi, ricette economiche per problemi politici. L’errore è voler applicare alla politica, gli uomini, i criteri della pubblicità, dell’economia e della finanza che ubbidiscono a logiche e meccanismi diversi.

Il risultato è la tecnocrazia e il populismo. Ma la politica ha una sua specificità e non può essere confusa con la propaganda e con l’economia. L’economia non fa scelte antieconomiche,la politica si. L’economia non avrebbe mai portato la corrente elettrica o il telefono a paesi sperduti dell’Aspromonte o delle alpi, la politica l’ha fatto. Ma una cosa sono le scelte antieconomiche suggerite ed imposte da esigenze sociali, altra cosa sono le scelte antieconomiche suggerite ed imposte da esigenze affaristiche. Una cosa è ridurre di qualche anno l’età pensionistica, altra cosa è fare un’opera inutile, solo per affari, per accontentare qualche imprenditore amico e poi lasciarla a metà perché finisce il finanziamento.

Le prime, giuste o sbagliate che siano, hanno sempre un aggancio con la politica economica e quindi con le esigenze del Paese, le seconde servono solo a perpetuare il potere del partito. Assistiamo ad un strano guazzabuglio in cui le ricette elettorali si scontrano con quelle tecniche, mentre le soluzioni politiche, sono fuori dalla porta. Occorre che la politica si riappropri del suo potere, come condizione essenziale per smantellare la sua subordinazione, rispetto al potere finanziario. La politica europea ha dimenticato che ha il potere di nazionalizzare le banche, di scoraggiare le transazioni finanziare, di annullare i debiti,di dilazionarli. Insomma la politica ha dimenticato la forza del suo potere legislativo ,in grado di debellare la speculazione e il liberismo antistatale.

Il fatto è che manca la cornice strategica in cui collocare i provvedimenti.

Più Stato e meno mercato: il sistema europeo delle partecipazioni statali

E la cornice è data dal contesto globale in cui è inserita la crisi e dalla compatibilità delle risposte risolutive, rispetto a tale contesto.

Siamo in una fase avanzata del passaggio, da un’economia internazionale ad un’economia globale dove merci, servizi, capitali, persone, ed informazioni si muovono liberamente. Una libertà generata e supportata dalla modernizzazione dei trasporti, dallo sviluppo di internet e dei servizi ad esso collegati, insomma dai progressi della tecnologia. Un movimento che coinvolge la politica. Le imprese, la finanza, che si contendono la supremazia sul mondo. Si sviluppa cosi un intreccio di relazioni, sempre più fitto fra le varie economie, le varie culture, le varie politiche dei vari Paesi, che determina una interdipendenza tra di essi, per il quale ciò che avviene in un paese condiziona tutti gli altri.

La crisi della Lehman Brothers, non ha coinvolto solo gli Stati Uniti, ma ha contagiato anche l’Europa. Ciò che avviene in Grecia non riguarda solo la Grecia, ma tutti i Paesi Europei, gli Usa e la Cina. La primavera egiziana, quella libica, siriana, tunisina, non sono nate dal nulla, ma dal contagio della cultura democratica dell’occidente verso il mondo arabo.

Cambia anche il modus operandi della politica. La dimensione territoriale si intreccia con la dimensione politica, cosi da condizionare i tradizionali assetti ideologici (destra ,sinistra,centro) rendendone mobili i confini. L’appoggio della destra italiana ad Hollande, la convergenza in sede europea del premier spagnolo con quello francese, ne sono un esempio lampante. Gli interessi nazionali prevalgono sulle convinzioni ideologiche, al punto che un partito di centro sinistra, il PD, supporta un premier (Monti) ed un governo di destra, e vota politiche che aiutano i ricchi e danneggiano i poveri. Nell’economia internazionale le imprese considerano il mercato nazionale come mercato interno, che convive con tanti mercati esteri in cui le imprese installano le proprie unita produttive, ciascuna dotata di una propria clientela e di una larga autonomia ed iniziativa nel proprio specifico mercato locale di riferimento.

Nel mercato globale le imprese considerano il mondo intero, come un unico mercato interno. Le diverse unita produttive non riforniscono ciascuna per la propria ristretta clientela, ma al contrario destinano la propria produzione ad ogni parte del mondo.

La distinzione tra questi diversi spazi commerciali, sottintende due modi operativi delle funzioni aziendali e statali, sostanzialmente diversi.

Le imprese internazionali installano gli stabilimenti nel mercato di riferimento, ma sviluppano R&S, il marketing, la finanza, nel paese della casa madre dell’azienda. Le imprese globali installano gli stabilimenti nel mercato di riferimento,ma sviluppano R&S, il marketing,la finanza, nei paesi dove queste funzioni possono esprimersi al meglio. Così è ben possibile, che una società abbia la propria sede a Detroit, ma gli stabilimenti in Italia, la finanza ad Hong Kong, il marketing in Birmania, la R&S in India.

Il processo di globalizzazione ha allargato la dimensione e la natura della concorrenza, che non è solo un fatto economico che coinvolge le imprese, ma geopolitico. Così quella che ieri era competizione tra imprese,oggi è competizione tra sistema Paesi o meglio tra aree geografiche. Di qui la necessità di un processo di adeguamento dimensionale ed operativo delle aziende e degli Stati, al contesto globale in cui vivono. 

In un mercato globale possono competere solo imprese, che abbiano una dimensione adeguata a far fronte ad una domanda mondiale. La facilità e la rapidità dei trasporti, la mobilità dei saperi, omologa i consumi e i comportamenti sociali e politici. Sono sempre più numerosi i ristoranti cinesi in Europa, pizzerie napoletane sono presenti ad ad Hong Kong, la moda araba influenza quella italiana, il sapore della democrazia occidentale si incunea nelle varie parti del mondo e anima rivolte e moti di piazza.

E d’altra parte, in un contesto globale possono sopravvivere solo Stati che abbiano una dimensione adeguata. Piccoli stati quali Italia Germania non possono da soli competere con Cina, U.S.A., India, Brasile ecc.

L’Europa è chiamata a competere con questi colossi, ma l’Europa, con le quattro liberalizzazione delle merci, dei servizi, dei capitali, delle persone funzionali al mercato unico europeo, è solo una variante del mercato globale, non è uno Stato.

E per tornare al presente, la fiducia dei mercati si conquista con un riferimento soggettivo unico dei soggetti debitori, che attui la solidarietà dei debiti, con un'unica politica economica, unica politica del lavoro, unica politica fiscale.

Di qui la necessità, sul piano della risoluzione della crisi e quello della globalizzazione, della costituzione di un'Europa come Stato, degli Stati uniti d’Europa.

Ma se l’obiettivo è la costruzione di un'Europa politica, occorre definire il rapporto tra questo soggetto politico e l’economia e i principi che lo regolano. Lo Stato regola o gestisce l’economia? Vale il principio liberista laissez faire o quello keynesiano? A prescindere dalla propensioni di ciascuno, non si può prescindere da taluni dati oggettivi. L’attuale crisi nasce dal liberismo. La propensione al profitto travolge tutto e tutti aggredisce e approfitta di tutte le debolezze siano esse dei soggetti o degli Stati.

Le ricette liberiste per risolvere la crisi, non hanno dato risultati, basta vedere la Grecia , la Spagna e l’Italia. Si è intervenuti con l’austerità, con tagli lineari e con provvedimenti antisociali, sui fattori di incremento del debito. Nessuno di questi paesi ha rifiutato le insensate misure di austerità senza equità, imposte dalla troika, eppure il problema non è stato risolto. Come per la tela di Penelope i vantaggi prodotti dalle misure di austerità, vengono, annullati dalla speculazione, dalla recessione.

Il fatto è che l’Europa è permeata da un normativa e da una cultura capitalistica, da cui esula qualsivoglia politica restrittiva della libertà d’impresa e meno che mai ogni ingerenza statuale nell’economia.

Fino ad oggi in base ad una pregiudiziale ideologica che ritiene intoccabile il capitalismo si è chiuso gli occhi sul fatto che il liberismo ha prodotto la crisi e che le ricette liberiste non sono in grado di risolverla.

E’ una pericolosa utopia pensare che l’Europa possa risolvere la crisi con la sola austerità, senza prendere nella giusta considerazione, addirittura ignorando, i problemi allo sviluppo determinati dal credit crunch e dalla recessione, ma soprattutto il contesto globale in cui la crisi si colloca. Secondo l’opinione prevalente la rigidità in uscita dal mondo del lavoro, ostacola gli investimenti.

Ma gli investimenti sono fatti di soldi e nessun investimento è possibile senza soldi. Nessun investimento regge senza finanziamenti. Serve la capitalizzazione delle imprese, ma servono anche i finanziamenti bancari. E allora prima di parlare di investimenti bloccati, è forse giusto valutare la quantità dei flussi finanziari bancari disponibili per gli investimenti, del tasso di capitalizzazione delle aziende, degli investimenti sottratti dagli imprenditori all’industria . 

Quanto è diminuito il credito industriale? Quanta è aumentata la speculazione finanziaria? Oggi si parla di stretta creditizia. E con essa si rimanda di nuovo alle banche per spiegare il blocco degli investimenti. Se il poter finanziario incide sui bilanci pubblici e sulla crescita e quindi sull’economia reale, occorre chiedersi: che cosa sono i mercati finanziari, sono i pensionati dell’Oregon, la casalinga di Pavia, insomma il complesso dei piccoli o medi investitori o poche banche che dirigono la giostra;

se il loro andamento è regolato da un meccanismo naturale o da un meccanismo indotto dal potere finanziario. La risposta può essere una sola: le banche sono il punto di snodo di questa crisi, giacché condizionano i mercati finanziari, le economie reali, e con essi gli Stati. Se l’origine della crisi sono le banche e loro sete di profitto è su questo punto che bisogna intervenire con un processo di nazionalizzazione che impedisca loro di aggredire gli Stati.

E allora da qui bisogna partire, dalla costituzione di banche pubbliche con il compito di finanziare le imprese che innovano e conservino e sviluppino i posti di lavoro. Come? La strada è una e una sola: un processo di nazionalizzazione o meglio di europeizzazione, che consenta di costituire un complesso di banche per lo sviluppo della crescita, di proprietà dell’Europa Federale.

Incidere sulla crisi, significa intervento pubblico nell’economia, ma anche competere in una società globale, significa intervento pubblico nell’economia.

La competizione sistemica non è solo un fatto dimensionale, ma anche organizzativo. Le imprese e gli Stati non operano da soli, ma all’interno di una squadra, composta da tanti giocatori, lavoratori imprese, finanza, istituzioni. E la squadra è un'organizzazione che stabilisce i meccanismi operativi, i raccordi, le tattiche, le strategie, perchè la squadra non sia la somma di tanti soggetti, ma un organismo unico. Se la gara avviene tra squadre, non è immaginabile che essa possa essere giocata solo da uno dei giocatori, il più bravo (la Germania) o il più forte (il potere finanziario). Dunque non basta un’ Europa federale, ma occorre che tutti i soggetti della federazione, facciano gioco di squadra. E se la competizione è tra Stati e le aree geografiche di riferimento, è chiaro che qualsiasi problema che incida sulla stessa, deve essere affrontato dagli Stati e dalla aree geografiche e non può essere affrontato dalle imprese per conto degli Stati. Non si possono finanziare le banche, perchè queste acquistino titoli pubblici, per far scendere lo spread. Occorre finanziare gli Stati.

Così come è impensabile che aziende strategiche europee, possano essere affidate a soggetti privati e rischiare ciò che sta avvenendo in Italia con la Fiat, che sta abbandonando il nostro paese lasciandolo in brache di tela. Insomma le P.P.S.S. europee nel settore bancario e in quello industriale strategico, sono una necessità per l’Europa, impegnata a risolvere la crisi e in una competizione sistemica. L’austerità non basta ,la crescita non basta. Certo sono necessari ,quando servono ad evitare gli sprechi e a incrementare il PIL, in aderenza ad un disegno di politica industriale, ma non risolvono la crisi.

La speculazione ha allargato il suo raggio di azione che oggi coinvolge non solo le imprese ma gli Stati, non solo gli Stati ma le aree geografiche.

Se l’attacco è agli Stati e quindi alla politica, la risposta non può essere che politica.

Se l’obiettivo della speculazione è la sottomissione degli stati ai mercati e quindi al capitale finanziario, attraverso l’annientamento della politica, la risposta può derivare solo dalla politica ,attraverso la sottomissione del capitale agli Stati.

Se la speculazione è espressione del sistema capitalistico, la risposta alla speculazione non può che essere una politica anti sistema.

La BCE come banca di ultima istanza, il fondo salva stati, sono tutti pannicelli caldi. La sconfitta del male può derivare solo da un sistema alternativo a quello capitalistico, che superi il dilemma, dominio dei mercati sullo Stato o dominio dello Stato sui mercati, per affermare una convivenza tra i due, in una squadra composta da tanti giocatori: imprese, lavoratori, istituzioni, p.a.. Una squadra che assicuri all’Europa la competitività sistemica,l’unica possibile in un mondo globale.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.48) 13 agosto 2012 15:03

    eh già, condivisibile. Ma ormai, come riuscirci se non a livello di piccole comunità sul territorio? Non credo che dall’alto potremmo mai aspettarci chissà quale soluzione. DI politici non corrotti o non disposti al ricatto o sono fatti fuori o sono dipinti come nuovi despoti.

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