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Pigmalione, ovvero la costruzione dell’altro

Vi è un episodio nelle Metamorfosi di Ovidio al quale ho guardato sempre con una buona dose di umana invidia. Pigmalione è stato, secondo i versi del poeta latino, un re di Cipro molto capace nell’arte scultoria. Tanto bravo da scolpire una statua di donna della quale successivamente si è innamorato perdutamente. Quindi, come avviene spesso nei racconti dei miti classici, Pigmalione, che doveva per sua natura essere un devoto agli dei ed un ostinato, chiese alla dea Venere di veder umanizzata la sua creatura. In verità non osò chiedere tanto, ma almeno, l’immodesto re, ne avrebbe voluto una uguale.
 
"si, di, dare cuncta potestis,
 sit coniunx, opto," non ausus "eburnea virgo"
 dicere, Pygmalion "similis mea" dixit "eburnae."
 
Pigmalione, certo, non doveva essere un uomo dall’aspetto attraente, tant’è che il suo nome in greco significa nano, ma astuto, come parte dei mortali, lo era.
Galatea, questo il nome della sua creatura, viene descritta come una statua dalle bellissime e seducenti fattezze femminili. Venere, forse mossa a compassione o per chissà quale progetto divino, acconsentì. Pigmalione, nel veder animata una sì bella donna tutta per sé, perse il senso dell’arte per procedere ad attività più umane e pensò subito d’impalmare la giovane. Tanto che da lei ebbe un figlio, certo Pafo.
Comunque siano andate le cose, ciò che mi interessa sottolineare è questa capacità di Pigmalione di costruirsi da sé il suo partner, e di poter riflettere sui Pigmalioni e sulle Pigmalione del nostro tempo. Il mito si presta, d’altronde, particolarmente bene a queste riflessioni. In effetti, cosa sarebbe stato possibile narrare di Pigmalione se non questo favolistico episodio? E chi sarebbe stato lui stesso senza la sua Galatea dalla pelle bianco latte (il nome stesso ce lo dice) e dalle appetibili forme?
 
Ma sembra esserci di più. Solo per citare alcune ricerche famose nel campo psicosociale, un cenno non può non essere fatto ad una ricerca condotta agli inizi degli anni ’70 da Robert Rosenthal e Lenore Jacobson dal titolo Pigmalione in classe (Pygmalion in the classroom). Nel corso di questa ricerca gli autori avevano consegnato ad alcuni professori della Oak School una lista di alunni, ai quali era stata data una valutazione particolarmente positiva ad un test d’intelligenza. I due ricercatori consegnarono, in verità, una lista di alunni scelti a caso senza tenere conto dei risultati effettivi. Alla fine dell’anno scolastico, Rosenthal e Jacobson si recarono di nuovo nella scuola. Ebbero così modo di verificare che gli stessi alunni presentati come particolarmente intelligenti avevano ottenuto dei risultati particolarmente positivi. Questo tipo di ricerca, oltre a mettere in evidenza l’estrema vulnerabilità di alcuni tests, ci apre la strada verso un’affermazione particolarmente interessante di William Isaac Thomas, il cosiddetto “teorema di Thomas”:
 
“Quando gli uomini considerano certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze”.
 
Il povero Pigmalione non sapeva certo di essere sociologo e psicologo sociale ante litteram e Venere non immaginava, o meglio in qualità di dea non lo ammetteva solo per modestia divina, di facilitare una profezia che si auto adempie , sempre per restare nelle argomentazioni di Thomas.
 
Nel caso di Galatea e in quello degli alunni dell’Oak School le loro performances sembrerebbero non dipendere da loro qualità intrinseche, essendo la signora Pigmalione una statua di marmo e gli allievi, fanciulli del tutto ordinari. Tutto, invece, sembrerebbe dipendere dal particolare nuovo sguardo posto su di essi dal signor Pigmalione e dagli ignari professori. Vi sarebbe quindi, nei casi citati, una creazione ex nihilo di una identità e non la rivelazione di un’identità prima latente. Vi sono poi, in queste due ipotesi non solo una Galatea divenuta di carne ed ossa e alunni rivelatisi, a loro insaputa, particolarmente bravi, ma anche dei nuovi docenti, che hanno visto le loro ipotesi confermate, ed un Pigmalione che, tutto sommato, ha fatto bene a crederci. In buona sostanza “considerare le situazioni come reali”, e già su quest’ultimo termine ci sarebbe da dire, ha messo in moto un processo identitario reciproco. Una creazione, nel concreto, altamente instabile, proprio perché segnata da situazioni reciproche non riproducibili. Un vero rebus della nostra quotidianità, la cui risoluzione non è, questa volta, demandata agli dei.
 
 
Bibliografia minima
 
Jean-Claude Kauffmann, L’invention de soi, Colin 2004
François de Singly, Le soi, le couple et la famille, Nathan 1996

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