• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Mondo > Perché si spiano (da sempre) i propri alleati

Perché si spiano (da sempre) i propri alleati

Lo spionaggio dell'Nsa nei confronti dei governi alleati emerso dal caso Datagate non è una novità tra gli addetti ai lavori. Spiare i propri alleati è infatti una pratica costantemente utilizzata nelle relazioni internazionali. Qui vi raccontiamo qualche caso storico e vi diciamo alcuni buoni motivi per continuare a farlo (c'entrano Gengis Khan e i messicani).

“In tutti i tempi, i Re e le persone dotate di autorità sovrana sono, a causa della loro indipendenza, in una situazione di continua rivalità e nella postura propria dei gladiatori, le armi puntate e gli occhi fissi gli uni sugli altri: vale a dire fortezze, guarnigioni e cannoni alle frontiere dei loro regni e spie che controllano incessantemente i paesi vicini; questo è un atteggiamento di guerra”

Thomas Hobbes, 1651

Al di là delle ipocrisie e dei falsi appelli indignati, la storia delle relazioni internazionali è piena di casi in cui Stati e Regni alleati si spiavano tra di loro. Certamente l’indignazione è obbligatoria, perché la presunta limpidezza dei rapporti internazionali tra paesi amici non può venir sporcata in questa maniera. Ogni paese deve difendere, oltre ai proprio confini e alle proprie ricchezze, anche la propria reputazione. Al di là di questo, tutti i governi – o almeno tutti i governi che non siano sfacciatamente incoscienti – sanno che lo spionaggio tra alleati è sempre esistito, e sempre esisterà. La diffusione dei documenti segreti dell’Nsa da parte dell’informatore Edward Snowden, per quel che riguarda lo spionaggio a danno dei politici alleati, rivela in realtà una pratica costante e fisiologica della politica internazionale.

A dirla tutta queste dinamiche sono esistite fin dagli arbori dello spionaggio moderno, cioè da quando Pio V fondò i servizi segreti vaticani nel lontano 1566. Il nome originale scelto da Pio V era “Santa Alleanza”, ma in seguito nel mondo questi servizi presero il nome, molto azzeccato ed oggettivamente meraviglioso, de “L’Entità”. I compiti affidati a L’Entità erano in primo luogo di difendere la cristianità, e quindi per riflesso il potere del Vaticano. Non sorprende che l’istituzione politica più longeva di sempre sia stata la prima ad attrezzarsi di servizi segreti organizzati. Nella sua storia l’Entità ha compiuto omicidi, rovesciato governi, scatenato insurrezioni, insomma, tutto quello che ancora oggi possono fare e spesso fanno, i moderni servizi segreti. Non solo; fin dall’inizio della loro storia, i servizi vaticani si sono anche occupati di tenere sotto controllo – "monitorare” si direbbe oggi – le intenzioni dei loro più stretti alleati.

Durante gli anni ’80 del 1500 i rapporti tra Corona Inglese e Corona Spagnola erano pessimi. Le guerre religiose imperversavano in tutta Europa, e Papa Gregorio XIII (che succedette a Pio V) aveva tutta l’intenzione di riconquistare potere nell’Inghilterra anglicana. Filippo II, potente Re spagnolo, assunse a sé il compito di invadere l’isola e riconsegnare alla Vera Chiesa la Corona Inglese. Era il periodo in cui l’Invincibile Armata si stava preparando per il viaggio che sarebbe servito per portare le armate spagnole sulle coste inglesi. Gregorio XIII, nonostante fosse stato eletto in meno di 24 ore grazie al forte influsso spagnolo sul Conclave, nutriva sospetti verso tutti, ivi compreso Filippo II (il potere porta con sé il germe della paranoia, in passato come oggi), e per questo motivo mandò molte spie alla sua Corte. Il motivo principale era che il Papa non si fidava del tutto delle intenzioni del Re, e voleva avere conferme dirette sulla sua determinazione nello spedire la poderosa flotta verso l’Inghilterra.

Andando avanti nella storia si possono trovare altre situazioni documentate di alleati che si spiarono tra di loro. Nel 1917, durante il primo conflitto mondiale, il governo britannico voleva al più presto che gli Stati Uniti entrassero in guerra al loro fianco, in modo da dividersi l’onere di fermare le mire espansionistiche della Germania guglielmina. Secondo Keith Jeffery – storico ufficiale dell’M16, il servizio segreto estero britannico – gli inglesi utilizzarono ogni trucco per portare sulle loro posizioni il governo americano. Per esempio, grazie al monitoraggio ai danni di un cavo transatlantico statunitense, l’M16 scoprì un piano tedesco che mirava a far entrare il Messico nella guerra, promettendo loro pezzi di territorio americano a fine conflitto. L’M16 riferì – ovviamente nascondendo la fonte – al presidente Woodrow Wilson la notizia, convincendolo nel dichiarare guerra alla Germania.

Le intercettazioni attuate sui cavi transatlantici americani non erano l’unica modalità con cui l’intelligence britannica spiava il suo alleato oltreoceano. Sir William Wiseman, un agente sotto copertura dell’M16, riuscì a farsi accreditare nell’entourage della West Wing alla Casa Bianca e guadagnò la fiducia del presidente Wilson e del suo consigliere Edward House. Grazie alla sua abilità riuscì ad essere sempre molto informato sulle intenzioni di Washington nel corso della guerra, e soprattutto, riuscì ad informare l’M16 sulle strategie che gli americani avrebbero adottato alla Conferenza di Pace di Parigi e quindi sulle intenzioni statunitensi nel dopoguerra.

Gli americani, dal canto loro, spiavano le comunicazioni delle potenze amiche durante quegli stessi negoziati di pace, paradossalmente proprio quando il presidente Wilson propugnava la “diplomazia aperta“. Il governo americano inoltre spiò i propri alleati alla Conferenza Navale di Washington, cosa che portò diversi vantaggi negoziali agli Usa al momento di stilare i trattati che decisero le sorti dell’area del Pacifico. Il Segretario di Stato di allora, Henry Stimson, quando venne a sapere dello spionaggio a danno dei propri alleati si infuriò. “i gentiluomini non si leggono la posta l’un l’altro” disse, e decise di chiudere il “Black Chamber“, cioè il bureau che si occupava di decodificare e spiare le comunicazioni estere. Non molto tempo dopo, lo stesso Stimson – probabilmente ravveduto – contribuì a creare l’Nsa.

Anche noi italiani abbiamo spiato – legalmente – agenti stranieri. Nel 2003 un gruppo di agenti della Cia rapì illegalmente sul territorio italiano l’Imam di Milano Abu Omar. Il caso è lungo e dibattuto, ma a noi interessa la conclusione: tra il 2009 e il 2013 la magistratura condannò gli agenti della Cia che parteciparono al rapimento e alcuni degli agenti italiani che collaborarono. I giudici inquirenti per arrivare a questo risultato spiarono i cellulari e le comunicazioni degli agenti ancora operativi.

Di esempi se ne possono fare ancora molti, ma questi bastano per rispondere alla domanda: perché gli alleati si spiano tra di loro? Ci sono un sacco di buoni motivi, in realtà. Per proteggere gli interessi nazionali messi in dubbio dai propri alleati, per premunirsi in caso di “doppio gioco”, per proteggersi dai potenziali contrasti d’interesse, ma anche per evitare che un proprio alleato possa fare delle scelte sbagliate. E poi c’è la questione strategica. Infatti anche tra alleati la cooperazione, quando si tratta di strutture di intelligence, non è mai totale. Se i servizi di un paese richiedono determinate informazioni che sanno essere in possesso dei servizi di un proprio alleato, e quest’ultimo non glie le dà, allora ecco che entra in gioco il controspionaggio. I servizi di ogni paese sono, proprio come i paesi stessi, sempre in competizione tra loro, anche quando questa competizione è anestetizzata in superficie da un’alleanza più o meno radicata.

E’ incontestabile il diritto di ogni Stato di sentirsi al sicuro, e se questa sicurezza deve nascere dal possesso di certe informazioni allora ogni paese metterà in campo le proprie conoscenze per riuscire a tenersi al corrente di ciò che pensano anche i suoi amici. Gli Stati non si fidano mai completamente degli altri Stati, perché tutti sanno di essere in balia dellanarchia internazionale, e nell’epoca iperconnessa in cui viviamo, l’informazione è una delle armi più potenti e più rassicuranti a cui si possa aspirare.

Nelle relazioni internazionali il termine “amicizia” è un termine improprio. I rapporti tra Stati non potranno mai essere del tutto fiduciari. In un mondo complesso e pieno di interessi contrastanti tutto questo è inevitabile, e probabilmente non del tutto deleterio, poiché al di là dell’ipocrisia, se gli Stati possono arrivare a possedere più informazioni sulle intenzioni degli altri Stati, ciò va a diminuire il caos. Conoscere le intenzioni di chi ti sta intorno riduce il rischio di fraintendersi a vicenda, riduce la complessità dei rapporti, rende più chiari gli obiettivi degli attori, in poche parole rende il mondo un posto un po’ più comprensibile, e quando qualcosa la si comprende è più difficile fare errori di valutazione che potrebbero avere gravi conseguenze.

Esempi di come interpretazioni sbagliate delle intenzioni altrui possono scatenare enormi errori di valutazione ci vengono ancora una volta dalla storia. Tra questi, uno dei più più clamorosi riguarda Gengis Khan e l’Impero Corasmio.

Agli inizi del 1200 l’Impero Mongolo arrivò a confinare con l’Impero Corasmio, un ampio territorio comprendente gli odierni Iran, Afghanistan e Pakistan. Gengis Khan in quel momento non aveva intenzioni espansionistiche. Anzi, sua intenzione era quella di instaurare fruttuosi rapporti commerciali con lo Shah della Corasmia, Alāʾ al-Dīn Muhammad, che infatti vedeva come suo pari (“Tu governi il sole nascente, io il sole che tramonta“, gli scrisse in un messaggio). Negli anni precedenti lo Shah aveva avuto diverse dispute territoriali con il Califfo di Baghdad e temeva che Gengis Khan potesse allearsi con esso per smembrare il suo impero e dividersi con lui il suo territorio.

Quando Gengis Khan mandò una delegazione commerciale in territorio Corasmio, il governatore della città di Otrar, pensando che in mezzo a loro ci fossero delle spie, li imprigionò. Il Khan allora mandò dallo Shah tre ambasciatori, di cui uno musulmano, pensando che le incomprensioni potessero derivare dalla religione dell’imperatore corasmio. Gli ambasciatori avevano il compito di chiedere la liberazione della carovana commerciale e una punizione per il governatore che li aveva imprigionati senza motivo. Lo Shah decapitò l’ambasciatore musulmano e rasò la testa dei due ambasciatori mongoli – un affronto inaccettabile per il Khan, che considerava inviolabili e sacri gli ambasciatori. In seguito lo Shah sterminò tutti i 500 mongoli della carovana commerciale e rispedì al Khan i suoi due ambasciatori. Gengis Khan non poté soprassedere, ed in due anni conquistò e distrusse l’Impero Corasmio. Stessa sorte toccò al califfato di Baghdad poco tempo dopo. Se lo Shah avesse avuto informazioni sulle vere intenzioni di Gengis Khan, oggi la storia dell’Asia (e non solo) potrebbe essere molto diversa.

Per concludere; pensare allo spionaggio tra alleati come un tradimento di principi mai scritti è un modo ingenuo di ragionare sulle cose del mondo e sulla realtà. La storia insegna che logiche di questo tipo non sempre sono deleterie, ed anzi spesso sono benigne nella loro funzione di illuminare le intenzioni altrui, in modo da rendere più leggibile il contesto internazionale in cui si è costretti ad operare.

Per questo motivo non credo che l’operato di Snowden sia del tutto saggio e lungimirante. Tutt’altra cosa è invece il monitoraggio delle informazioni e dei dati privati di normali cittadini, che poco hanno a che fare con le decisioni strategiche di un paese. Ma questa è un’altra faccenda.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares