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Per chi suona la campana di via Solferino?

 Quale posizione prendere nello scontro che contrappone la direzione del Corriere della Sera ed il sindacato dei giornalisti? Chi ha ragione? Quali implicazioni ha per il sindacato italiano dei giornalisti?

La lettera di Ferruccio De Bortoli alla redazione del Corriere della Sera. E’ un colpo di cannone.

Chiude definitivamente il secolo fordista. E risolve irreversibilmente l’altalena fra apocalittici o integrati, a favore dei realisti.

Non è più tempo di cullarsi nelle illusioni sul carattere momentaneo o modaiolo dell’innovazione digitale.

Il direttore del Corrierone chiede ai suoi giornalisti e con essi a tutti i giornalisti italiani, di cambiare pelle. Di mutare grammatica professionale per salvare il proprio mestiere.

La biografia del mittente della lettera dovrebbe escludere l’ennesima visione complottarda.

Fino a qualche mese fa De Bortoli era il candidato della sinistra a tutto a Milano.

Non può esserersi ridotto oggi a strumento di una bieca restaurazione reazionaria. Ma se anche fosse, se dietro le sue parole si celasse un disegno di normalizzazione politica della redazione di via Solferino, la questione non muterebbe di qualità.

Le cose che scrive De Bortoli hanno una forza propria, un’evidenza e una cristallina persuasività, che prescinde dal contesto negoziale. Il dato che pone il Corriere della sera riguarda la struttura e le modalità di trasmissione della comunicazione, e più un generale del sapere.

La sua titolarietà, e le forme sociali che rendono questo sapere più ricco e diffuso.

 

Testata corriere

 

La radice del suo ragionamento, e comunque l’essenza della realtà che ha imposto e reso indifferibile porre il problema, riguarda la trasformazione del sistema di relazioni sociali che presiede alla formazione e alla circolarità della notizia. De Bortoli parla di flessibilità e fungibilità nei linguaggi e nell’uso delle piattaforma.

Ma quello è il tratto finale del percorso in discussione.

Qualcuno, io spero la mia categoria, il mio sindacato, la mia cultura politica, dovrebbe rispondere che se quello che dice De Bortoli è vero - e cioè non deve esservi soluzione di continuità nella comunicazione di contenuti su ogni tipologia di piattaforma e di device - allora più vero ancora è che il giornale, il gruppo editoriale, lo stesso direttore, non possono pensare di rimanere le uniche torri svettanti nella liquefazione delle casematte corporative.

E’ vero, la multimedialità oggi è la natura stessa del linguaggio.

Così come si acquisisce la notizie su piattaforma e in ambienti diversissimi (dal web, al social network, dal passa parola, alla circolarità dei singoli media, fino alle stesse fonti convenzionali, persino), così la stessa notizia va resa su ogni piattaforma e device, aggiornandola e progressivamente misurandola con il brusio contestuale della rete.

Non è una conquista di un editore, o una concessione di un cdr, è una pretesa di alfabetizzazione di un professionista, che non deve rinunciare alla nuova coralità dei media per riconfigurare la propria incerta funzione di mediatore, nato nel mercato della penuria e oggi costretto a competere in un mercato dell’abbondanza delle news.

Questa bandiera non può essere lasciata a Google o a Mudoch.

I giornali non sono la stampa occasionale dei contenuti che raccolgono ogni 24 ore, ma sono un brand, un marchio di prestigio e di professionalità che rumina contenuti in permanenza e li rende in real time.

La pagina stampata è un flash nella lunga notte degli aggiornamenti on line. In questo nuovo contesto vanno riconfiguirate regole e valori della professione. Compreso il corredo degli accordi interaziendali del Corriere della Sera.

Arroccarsi sulla torre delle indennità non mi pare una grande strategia.

Dal Corriere il rimbombo del colpo di cannone è destinato a deflagare in ogni redazione.

Gli altri quotidiani, la rai, le radio, le agenzie.

Ognuno sarà chiamato ad inventare un proprio linguaggio, un proprio mix fra generi e piattaforme.

 

Sigle social network

 

Ma il punto non è questo.

La multimedialità è già il linguaggio di ieri.

Il social network è quello di oggi, l’autoproduzione è quello di domani.

 

Manuell Castells

Come ha spiegato Manuel Castells nel suo ultimo tomo "Comunicazione e Potere", della trilogia sulla Società in Rete, siamo proiettati nel tempo dell’autocomunicazione di massa.

Dove ogni individuo, per ambizione, capacità e dotazioni, sarà abilitato a scambiare comunicazione come forma di autoaffermazione.

Questo sta accadendo nel mercato musicale, di questo si sta parlando sul mercato dei contenuti di rete, questo è quanto si profila nel mercato dell’audiovisivo.

Siamo ad uuna vera rivoluzione copernicana, dove cambiano le gerarchie e le geometrie di trasmissione di saperi e informazioni.

Non dobbiamo più, come diceva nel XIII secolo Bernardo da Chartres, salire sulla schiena dei giganti.

Oggi dobbiamo reciprocamente arrampicarci sulle spalle di milioni di nani per vedere più in là.

Ed allora, bisognerebbe rispondere al direttore del Corriere, come vede l’idea di arroccarsi in una ottocentesca difesa dei diritti di proprietà, se l’atto costitutivo dell’informazione, non solo nell’ambito della distribuzione, come lui rivendica, ma anche in quello dell’elaborazione, è il risultato di una concertazione sociale, che si compone su infiniti media?

E quale l’autorità del direttore esclusivo in una comunità che scambia e combina frammenti di notizie per aggiornare continuamente il fixing di una news? E quali i diritti della stessa comunità, interna ed esterna al giornale, rispetto all’uso di questo flusso condiviso?

Come si vede nessuno oggi ha le carte in regole per pretendere un primato nel digitale.

Sicuramente qualcuno è più indietro di altri.

Questo è il lavoro.

Il lavoro materiale, in fabbrica, che non trova una nuova bussola per negoziare con il nuovo capitale finanziario, e il lavoro immateriale, che nelle redazioni non riesce ad afferrare il bandolo della matassa multimediale.

Ed è paradossale che proprio quando la narrazione, la capacità di elaborare i contenuti diventa un paradigma strategico per ingegnerizzare i modelli produttivi, per concepire gli agenti intelligenti della tecnologia, che sempre di più sono vestiti per alfabeti, proprio in questo momento i menestrelli diventano muti, gli intellettuali non riescono a parlare.

Negli anni ’70, non ci accorgemmo che mentre celebravamo il tramonto dell’operaismo, con il declino della fabbrica come luogo di centralizzazione dei saperi, un’intera generazione di nuovi intellettuali stava formattando linguaggi e soluzioni intelligenti che avrebbero riorganizzato l’intero modo di pensare e di relazionarsi.

Oggi dobbiamo recuperare il tempo perduto.

Non si tratta solo di regolamentare funzioni meccaniche, come la trascrizione digitali di articoli e reportage. Sarebbe miserabile pensare che la rivoluzione digitale sia un questione di semplici aggiunte alle lavorazioni tradizionali.

Oggi bisogna dare un’anima, culturale e politica, alle nuove forma di elaborazione partecipata, bisogna dare uno statuto a quel cervello connettivo che sta prendendo forma nei meandri della rete.

Cambiano le titolarità, i primati, le gerarchia, i valori della filiera informativa.

Devono cambiare le forme organizzative, i criteri professionali, i valori di scambio.

Così come accadde con l’avvento del telefono, che diede alla macchina giornale una gittata transnazionale. O come accadde con l’avvento del primo ciclo a freddo, alla fine degli anni 70, che appiattì la vecchia piramide tipografica del piombo fuso.

Oggi il mutamento è ancora più radicale: è il processo di rilevazione della notizia, che sfugge alle maglie redazionali. E allo tempo stesso, proprio perché è il mondo a farsi piatto, che diventa essenziale contare su capacità di contestualizzazione, di decifrazione, di analisi, del brusio informativo che rischia di inghiottirci.

Bisogna essere più innovativi di Google, e capire che quando il potente gruppo di Mountain View propone la soluzione Google Instant allora dobbiamo trovare competenze e reti di saperi per rispondere in real time alle domande che il motore di ricerca impone.

Bisogna essere più sociali di facebook, e ricostruire in ambienti circolari le fabbriche dei nostri saperi, a partire dalla macchina giornale. Dobbiamo essere più sensibili di Avid, e di Ibm, nella capacità di leggere e sagomare i sistemi editoriali, i cosidetti CMS (content management system), per ricondurli ad un livello di trasparenza e di accessibilità pubblica.

Per fare questo ci vuole un sindacato che non si nasconda furbescamente dietro la difesa dell’articolo 21 della costituzione, salvo appaltare la realizzazione di tutti gli altri, che non si creda una congrega di templari che difende il sacro Graal della professione, ignorando che ormai il mestiere è già transitato in altre mani, e a noi al momento è rimasto solo il calcolo delle indennità di funzione.

Ci serve anche un’altra politica, che affronti il tema non solo per aprire la strada a questo o quel direttore, ma per riorganizzare la sovranità culturale del nostro paese, che rischia di importare non solo le notizie ma anche il modo di leggerle.

Ci serve infine un altro sapere, che dia al giornalista una reale autonomia rispetto alla velocità che incalza e alla varietà di competenze che la realtà oggi ci propone, dalla bioetica al turbo capitalismo finanziario.

Infine ci servono alleati, ossia soggetti che insieme a noi vogliono non solo consumare, ma produrre informazione.

Penso agli enti locali, alle comunità sociali, al mondo del volontariato, alle aziende che vedono nella disponibilità di notizie veloci un fattore competitivo. Bisogna diventare i consulenti di chiunque voglia mettersi in proprio, voglia essere la fabbrica della propria auto comunicazione di massa, e non i sospettosi guardiani di sepolcri vuoti e freddi.

Bisogna aprire la gabbie.

 

federazione nazionale stampa italiana

 

Ripensare un mondo ormai in esaurimento, senza nostalgie notabilati o snobbismi da vecchie signore inacidite.

Sarebbe bello che la FNSI, invece che lanciarsi nella solita difesa d’ufficio del CdR, rispondesse al direttore del Corriere con una vera inchiesta sulla materialità del lavoro giornalistico, censendo le mille nuove occasioni dove si pratica il mestiere senza saperlo.

E su questa base promuovesse una conferenza di produzione della notizia, per ridarci gusto e consapevolezza di una professione che non può perdere curiosità per l’incertezza, e passione per il nuovo.

Se non lo farà la FNSI, si troverà pur qualcuno che in Italia lo vorrà fare. O no?

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