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Peppino Impastato fa parte della nostra ricchezza

Se qualche viaggiatore avesse la ventura di andare in Sicilia, non lontano da Palermo, non manchi di visitare Cinisi, il paese di Peppino Impastato, ucciso a 30 anni dalla mafia il 9 maggio 1978. È proprio vicino all’aeroporto di Punta Raisi, la cui terza pista fu occasione per espropri di terreni a poveri contadini mal rimborsati mentre l’autostrada accanto - dove nella vicina Capaci c’è la stele che ricorda l’omicidio di Falcone e la sua scorta nel ’92 - fu oggetto delle inchieste di Peppino.

Glielo si deve, si deve visitare la sua memoria, la sua casa, ora Casa della Memoria curata dal fratello Giovanni Impastato, che si dedica pazientemente a spiegare a tutti i visitatori chi era suo fratello, oltreché a diffondere nelle scuole una cultura antimafia.


Peppino, con gli scritti e le registrazioni rimaste dalla sua radio Aut, fa parte della nostra ricchezza: è ricco un Paese che ha persone speciali, che denunciano ciò che nella vita pubblica non va: solitamente la connivenza tra potere criminale e politico, o il malaffare in genere. Persone che sanno vedere dove altri semplicemente guardano o si voltano dall’altra parte, per il quieto vivere e perché, come si dice in Sicilia, «chi è orbo, sordo e tace, campa cent’anni in pace».

Qualche angelo dà questo ruolo a persone illuminate: cercare di cambiare cosa non va invece di arrangiarsi, denunciare invece di limitarsi a proprie piccole occupazioni borghesi; costoro ci indicano la strada, di solito sono dissacratori del perbenismo, del potere «aggiustato».

Rischiano la vita per questo, se la giocano e per questo diventano simbolo, siamo ricchi delle loro idee e del loro coraggio: ci ricorderemo più volentieri di Peppino (oltre alla Casa Memoria c’è il Centro Impastato di Palermo e i tanti giovani che ogni anno il 9 maggio si recano a Cinisi) e meno dei suoi giustizieri, Tano Badalamenti e il suo vice.

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