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Ombre di un passato mai spento

Anche nella vita più ordinaria e banale – magari segnata dall’insoddisfazione e dal conflitto – può accadere che intervenga un evento inconsueto – ma neanche più di tanto – che devia la nostra esistenza in una direzione imprevista e anche sgradita, almeno inizialmente, ma che finisce per rivelarsi una strada possibile per riguadagnare significati perduti o sconosciuti, sguardi nuovi, su di sé e sul mondo circostante.

di Adolfo Fattori

È quello che succede a Maria, la protagonista di Immobili ombre di Rosaria Rizzo (Homo Scrivens, Napoli, 2015), quando viene suo malgrado trascinata da una telefonata inattesa in un viaggio in un tempo e in uno spazio ormai lontani e dimenticati alla ricerca di una verità che apparentemente non le appartiene, ma che le si rivelerà più vicina di quanto possa immaginare. Perché tutto poteva immaginare, tranne che una mattina le telefonasse uno sconosciuto, un maestro di scuola ormai anziano, il professor Ugo Menna, dal paese di provincia dove la donna è nata e ha trascorso – male – gli anni della sua infanzia e adolescenza prima di decidere di andarsene per provare a costruirsi la propria vita in città, una città che neanche ama più di tanto, in cui conduce una vita insoddisfacente, rancorosa, amara, pressocché solitaria, con l’unica gioia del rapporto – costruito faticosamente – con la figlia Sara, ormai una giovane donna, avuta in giovane età. Figlia che ha cresciuto da sola, visto che il padre presto se l’è filata…

Menna le ha telefonato per invitarla a tornare al paese da cui manca da ormai trent’anni con la speranza che lei possa aiutarlo a risolvere il mistero di chi sia il corpo che giace in una tomba sulla cui lapide c’è solo un nome proprio, Nina, senza cognome, e un anno, il 1941, salma che deve essere spostata in un luogo più adatto: il pezzo di terra dove è stata ritrovata, sotto un ulivo, apparteneva alla famiglia di Maria – e forse lei può saperne qualcosa.

Inizialmente, e sgarbatamente, Maria rifiuta. Non vuole saperne niente, di questo “mistero”, del suo paese, che ricorda spento, chiuso, squallido, e delle vicende che lo riguardano, non vuole rivangare ricordi che ha ampiamente rimosso, non vuole tornare in luoghi che le sembravano estranei già quando ci viveva. E poi non vuole muoversi. La sua immobilità è parte forte della corazza che si è costruita, e che non vuole scalfire.

Pure, il giorno successivo alla telefonata cambia idea: decide di mettersi in viaggio, si organizza e parte.

E arriva al suo paese, dove la aspetta il professore, ritrovandolo così come lo ha lasciato: fermo nel tempo, vuoto, triste. Uno dei tanti pezzi di provincia profonda italiana, mai decollato a un destino diverso, lontano dalle vie di comunicazione, dal cambiamento, dal mutare della vita e della Storia. Ripiegato su se stesso, immobile, ostile, desolato. Nell’assolata afa estiva, mentre ne ripercorre dopo decenni le strade vuote, Maria ritrova con un senso di vuoto e di repulsione che non riesce a controllare, ma anche con meraviglia, fantasmi di ricordi, brandelli di una vita che aveva fatto e che non le appartiene più, che aveva espulso dalla sua memoria, dalla sua biografia.

E lentamente comincia ad addentrarsi nel “mistero” dell’identità della donna sepolta in campagna, affianco ad un rudere ormai in disfacimento.

Maria scopre presto che le ragioni alla base della richiesta di Menna sono suo malgrado distanti da un qualsiasi fine etico, o civile: motivi elettorali e speculativi – non dissimili, nella sostanza, da quelli che muovevano i potenti del paese all’epoca della morte della donna senza cognome.

Così come inconsistenti, fatti d’ombra sono gli abitanti attuali del paese: gente senza memoria, senza dimensione, quasi privi di interiorità, almeno nella percezione di Maria. Figure spettrali, evanescenti, inconsapevoli del presente, quasi, come del proprio passato…

E la ragione di questa ignoranza, dell’occultamento della memoria del paese comincia a svelarsi al nostro sguardo grazie al dipanarsi di una seconda linea narrativa, parallela a quella principale, che ci fa entrare lentamente nei fatti che condussero alla morte di Nina.

Un’epoca e uno spazio – come per tantissima provincia italiana nascosta, dimenticata – fatti di oppressione, miseria, meschinità, popolata da miserabili che o combattono per il potere, o cercano di difendersi da questo, questi ultimi subendo e tacendo, accettando e coprendo prepotenze e brutalità, soddisfatti per essere riusciti, quando gli va bene, a schivare le offese e le violenze dei signori del posto, privi di solidarietà, soffocati e accecati dalla ottusità perfida delle tradizioni e dei costumi arcaici – che la religione ha contribuito a conservare e alimentare. In attesa perenne di chi possa fare da capro espiatorio, concentrando su di sé la malevolenza di uno stato di cose che acquista la natura del Fato, come è capitato a Nina, cancellandone però la memoria, perchè non ne rimanga traccia nelle cronache – pubbliche e private – del paese.

La forza della storia che Rosaria Rizzo ci racconta è negli eventi che narra – che appartengono a una vicenda vera – certo, ma è anche nel calco che sceglie per raccontarla.

Un’andamento da racconto gotico, narrato senza concessioni, con uno stile secco, brusco, come i modi di Maria, in cui emerge lentamente un passato oscuro e vergognoso, centrato su una colpa che getta ancora la sua ombra sulla comunità attuale, sui discendenti e i sopravvissuti (solo uno di loro, considerato pazzo, svelerà la verità a Maria e a Menna), condannandola a una semi-vita immobile e terminale, quasi subumana, come in certi racconti dell’orrore ambientati in villaggi lontani e senza nome, gelosi del proprio isolamento, fuori del flusso del mondo, marchiati da un qualche peccato originale, da qualche immemorabile commercio innaturale, le dimore ideali per nascondere colpe e peccati, una delle tante tane del Male, ma di quello minore, fatto di egoismi, piccole malvagità, trascuratezza, bisogno, incuria nei confronti degli altri, anche dei propri congiunti, amici, simili. Un paese di morti che camminano, che hanno rimosso il passato e hanno escluso un qualsiasi futuro, bloccati allo stato larvale in un presente paludoso, vischioso, grigio.

Certo qui la dimensione magica del “racconto di orrore soprannaturale” è assente, com’è assente la dimensione del sacro, se non nella forma ipocrita e cupa della religione istituzionale, ma la cifra profana, “demagizzata” degli scenari che la Rizzo descrive e delle azioni che mette in scena rappresentano esattamente la realtà profana di cui il racconto fantastico e dell’orrore sono metafore.

Il paesino che fa da teatro della ricerca del vecchio professore e della donna tornata dalla città non è poi tanto diverso da quelli che vegetano tuttora in molta della nostra provincia, non solo meridionale, come si potrebbe pensare. Ancora segnati dall’eredità del latifondo, della divisione sociale, dei residui di un feudalesimo che ancora sopravvive nei rapporti sociali, familiari, di lavoro, lontani dalla dimensione culturale della Modernità, segnati da una gestione del potere che si fonda su una autorità imperniata sul ricatto e sulla forza – delle relazioni “importanti”, della distribuzione delle opportunità, della concessione dei permessi, della gestione del riconoscimento dei diritti come concessione di favori… un sistema di gestione del potere da cui, intuiamo, neanche Ugo Menna è del tutto estraneo – per quieto vivere, per abitudine, per aderenza all’ambiente in cui è sempre vissuto.

Non sorprende che seguendo Maria nel suo ritorno al paese non si incontrino giovani, tranne Matteo, il giovane barista che la donna incontra nell’unico – eterno – bar del paese, e che scopre essere un laureando in Fisica che non vede l’ora di finire gli studi per filarsela di lì.

Alla fine, scoperto il cognome e risolto il mistero della morte di Nina, Maria tornerà a riprendere il treno per la seconda – e ultima volta – per andar via dal paese dove ha vissuto da piccola.

Questa volta però non si tratta più di una fuga bene o male imporvvisata, ma di una definitiva, consapevole, liberazione – dai vincoli e dai fantasmi di un passato che, anche se largamente ignoto, aveva seganto in profondità il suo procedere nel mondo.

Insieme alla restituzione di un’identità alla giovane donna morta tanti anni prima, Maria ritrova la propria, di identità, attraverso la scoperta di radici che, scoperchiati gli interdetti e i rimossi – e probabilmente il senso di colpa – dei suoi “paesani”, la legittimano e la emancipano dal dolore, dalla sofferenza sorda che la hanno da sempre accompagnata.

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