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Oltre la crisi: qualche idea per un futuro possibile

Cercare un nuovo modello di sviluppo è necessario, e non solo per l’Italia: il nostro paese può avviarlo prima di altri con una serie di scelte politiche che non hanno nulla di rivoluzionario; che non richiedono un cambiamento radicale né del nostro modo di vivere né della nostra società.

Due amici italiani, nel giro di pochi giorni mi hanno detto la stessa frase: “Mio figlio sarà più povero di me”. Due voci sole, ma dentro un coro di sfiducia cui sembra partecipare tutto il paese, di cui fanno parte anche le nostre forze politiche e che è ormai guidato dalla nostra stessa classe dirigente.

Nessuno pensa più che l’Italia possa davvero crescere e da questo presupposto partono anche le ricette offerte oggi dalla politica; che si voglia conservare la ricchezza nazionale nella mani di chi la detiene ora o ridistribuirla alla ricerca di una maggior giustizia sociale, si dà per scontato che questa possa essere difesa, nella migliore delle ipotesi, ma possa in alcun modo aumentare.

E’ un pessimismo tanto immotivato quanto il folle ottimismo degli anni ottanta e che nasce, come questo, dall’assunzione che il futuro debba essere una prosecuzione lineare del contingente; che non dipenda dalle scelte che facciamo ogni giorno. Non solo; guardando al presente, oggi come allora si tende, per quanto possa apparire contraddittoria la cosa, a sopravvalutare il recente passato: a considerare le scelte di ieri come una garanzia per il domani o come una condanna biblica e non per quello che sono, un pezzettino soltanto, certo importante, nella storia più che bimillenaria della nostra nazione.

L’Italia, insomma, resta l’Italia e facendo affidamento su quel che ha ereditato dal suo passato, oltre a quel che la natura e la geografia le hanno dato, ha tutto quel che serve per mantenere il ruolo che sempre ha avuto di paese guida in Europa e nel mondo. Un ruolo che solo la tendenza a sminuirci, che abbiamo sviluppato forse come reazione alla retorica fascista, può negare o ridurre a Roma e al Rinascimento. Fu orribile, per esempio, il nostro Seicento? Ma sapete come fu il Seicento nell’Europa Centrale sconvolta dalla guerra dei trent’anni? Era povera l’Italia dell’800 che inviava i propri figli “all’America”? Certo, ma rispetto a chi? Non alla Scandinavia, dove la fame non era solo quella metaforica del capolavoro di Hamsun, o alla Svizzera i cui cittadini emigravano... in Italia.

Siamo in crisi da solo un trentennio, insomma, e tra un quarto di secolo, quando i nostri figli avranno la nostra età, potremo benissimo essere nel pieno di un boom economico. Abbiamo i nostri problemi, che si sono acutizzati con la più vasta crisi mondiale che è ora esplosa, ma anche questa può trasformarsi in un’opportunità. Proprio il fatto di essere “ultimi” può diventare l’occasione per tornare ad essere primi.

E’ evidente che il capitalismo finanziario fine a se stesso sia un costo insopportabile e che l’economia fondata sul consumismo si scontri con le risorse limitate del nostro pianeta. Cercare un nuovo modello di sviluppo è necessario, e non solo per l’Italia; il nostro paese può avviarlo prima di altri con una serie di scelte politiche che non hanno nulla di rivoluzionario; che non richiedono un cambiamento radicale né del nostro modo di vivere né della nostra società.

 A queste scelte, vorrei dedicare qualche articolo nei prossimi giorni.

Comincerò da quella che in realtà è una non scelta. Dobbiamo tornare a produrre perché a questo ci condanna la natura del nostro paese, bellissimo, ma privo di materie prime: per scaldarci, muoverci, mangiare, dobbiamo importare e per farlo dobbiamo avere qualcosa da offrire in cambio. Produrre in senso lato, considerando prodotto anche il soggiorno del turista o dello studioso di storia dell’arte, ma produrre. Possiamo ricomunicare a farlo domani perché, contrariamente ad altri paesi sviluppati, abbiamo ancora un settore industriale vivo, se pure in cattiva salute. Rendere conveniente farlo, invece, è compito della politica; ha a che vedere con scelte di carattere fiscale prima che con altro. Già ora tassiamo in modo diverso redditi di diversa natura. Questo va benissimo, ma dovremmo privilegiare gli utili ottenuti da attività produttive, artigianali ed industriali, non le rendite finanziarie. Dovremmo tassare meno gli utili che, scusate il gioco di parole, riteniamo più utili. Non si tratta di introdurre dazi che isolerebbero il nostro paese dal resto del mondo; semplicemente di tassare chi fa meno di chi commercia e meno ancora di chi si limita a investire il proprio denaro.

Produrre, intraprendere per fare qualcosa e non solo per commerciarla, insomma, deve tornare ad essere la strada privilegiata per arrivare al benessere.

Non se, ma cosa e come produrre, soprattutto, sono le domande. Anche in questo caso le risposte che emergono guardando al mondo d'oggi ed alla nostra storia sono univoche, ma temo di aver già abusato della pazienza vostra e della redazione e ve ne parlerò domani.

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