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Nucleare. Dal movimento del referendum alla necessità di una nuova campagna nazionale

Nucleare. Dal movimento del referendum alla necessità di una nuova campagna nazionale

Erano anni sul filo del rasoio. Aprile 1986. Una cena fra amici e colleghi in una casa a via dei Mille, una strada vicino alla stazione Termini di Roma. Chiacchere, risate, un po’ di vino rosso. Verso le dieci di sera arriva una telefonata. La padrona di casa si alza, va a rispondere. Dopo pochi minuti ritorna, scura in volto. «Era Antonio dal giornale. Sembra che sia successo qualcosa di grave in Russia. Una nuvola radioattiva ha raggiunto la Finlandia. Ci sono già dei lanci di agenzia. Credo la Reuters». Tutte le persone presenti in quella casa sapevano perfettamente di cosa si stesse parlando. Le possibili cause di una nube radioattiva sulla Finlandia erano solo due: o c’era stata un’esplosione accidentale di una testata nucleare sovietica, oppure si era verificato un incidente in qualche centrale. Seduti attorno al tavolo c’erano un pezzo dell’ambientalismo e del movimento antinucleare italiano: giornalisti, attivisti e dirigenti della Lega per l’ambiente (così si chiamava ancora quella che poi sarebbe diventata Legambiente). Era appena l’inizio. Nessuno conosceva ancora un nome che sarebbe passato alla storia: Chernobyl. Ma tutti erano consapevoli che nulla sarebbe stato più come prima. Solo dopo un paio di giorni si iniziò a sapere cosa stesse succedendo e dove.

Il 1986 per il movimento ambientalista italiano era già un anno particolare. Da alcune settimane era partita la campagna per la raccolta firme del referendum contro la caccia. Le associazioni crescevano, nell’Ottantacinque si erano presentate alle elezioni amministrative le prime liste verdi. Dopo anni di incubazione il movimento stava prendendo una forma autonoma e una capacità di azione sempre maggiore. «Il movimento antinucleare era nato dentro le università già alla fine degli anni Settanta – racconta Ermete Realacci – con il Comitato per il controllo delle scelte energetiche. C’erano Mattioli, Scalia, Clini, io stesso. Era un movimento, quello italiano, segnato da una cultura scientifica, diversamente da altri Paesi, dove la matrice era, come per i tedeschi e i francesi, più tradizionalmente politica e sociologica ». Nell’Ottantasei Realacci era il segretario della Lega per l’ambiente (ancora ma solo per poco, associazione dell’Arci) dalla quale sarebbe uscita a luglio dello stesso anno. «Se uno si va a vedere le elaborazioni, i documenti, gli studi antinucleari della fine degli anni Settanta – prosegue Realacci – e li confronta con i dati del consumo energetico di dieci anni dopo, scopre che le capacità previsionali del movimento erano assolutamente più avanzate di quelle delle controparti. Sostanzialmente possiamo dire che il Comitato “ci coglieva”, l’Enel e il governo no. Loro gonfiavano le stime e leggevano le previsioni con la lente di chi ha già fatto una scelta: il nucleare».

E arrivò il referendum. Da tempo si stava pensando di indirne uno per la chiusura delle centrali esistenti, per l’interruzione dei lavori di quelle in costruzione e per bloccare il progetto di sviluppo del nucleare italiano che, secondo la proposta dell’allora ministro dell’industria democristiano Donat Cattin, prevedeva almeno 40 centrali nucleari. Un movimento che vedeva in prima fila anche due partiti: Dp e i Radicali. «I quesiti del referendum erano stati già elaborati prima dell’incidente di Chernobyl – ricorda l’ex ministro dell’ambiente Edo Ronchi, allora dirigente di Democrazia proletaria e primo firmatario del testo depositato – già c’erano stati incontri e riunioni con Peppino Calderisi dei Radicali per avviare la campagna referendaria».

«Chernobyl accelerò la presentazione del referendum – racconta un altro esponenente di Dp, Gianni Tamino – e la spinta emotiva condizionò di certo sia la raccolta firme che il voto dell’anno successivo ». Anche una testata storica della sinistra italiana come il manifesto decise di schierarsi contro il nucleare. Lo dirigeva, all’epoca, Mauro Paissan, che fu il portavoce del Comitato promotore del referendum e oggi è membro del Garante per la privacy. «Le posizioni nella sinistra tradizionale erano molto diversificate – ricorda -. Da una parte c’era la tradizione marxista operaista che era favorevole allo sviluppo del nucleare, dall’altra, però, c’era una critica a certe scelte di sviluppo». Il Pci, poco tempo prima dell’incidente in Ucraina, si era schierato apertamente a favore dello sviluppo del nucleare italiano. Nonostante sembri che, già allora, la maggioranza degli iscritti fossero contrari. Ma dopo Chernobyl, benché il partito non partecipasse alla raccolta firme, qualcosa cambiò. «La posizione del Pci non era ostile – specifica Paissan – ma dimostrava qualche freddezza». Il 10 maggio 1986, 200.000 persone sfilarono in assoluto silenzio per le strade di Roma. Era l’inizio di una campagna che, sia attraverso lo strumento referendario sia grazie a manifestazioni e blocchi davanti alle centrali, con il voto del 9 novembre 1987 segnò la fine del nucleare italiano. Determinanti per la raccolta firme furono i numerosi soggetti che parteciparono al comitato promotore, ma la spinta propulsiva maggiore arrivò da Dp e dalla Lega per l’ambiente, mentre le neonate Liste verdi erano ancora impegnate soprattutto sul referendum contro la caccia e non avevano ancora la capacità organizzativa di attivarsi su più fronti, se non per quanto riguarda la lista del Trentino Alto Adige guidata da Alex Langer che erano più profondamente impegnate da anni sul pacifismo e l’antinuclearismo. Un movimento talmente tanto forte che, nel marzo dell’Ottantotto provocò la caduta del governo che stava tentando di trovare una soluzione pasticciata per riaprire una strada al nucleare nel nostro Paese.

Fu una vittoria a metà?«Non si andò fino in fondo. Il movimento non approfittò della debolezza della controparte – racconta Mauro Paissan – e ci si accontentò del risultato». E la spiegazione di Ronchiè ancora più esplicita. «È stata inparte un’occasione persa. In Italia la politicaenergetica non ha avuto quell’impulso che Kyoto ha dato pochi anni dopoa altri Paesi europei. Quando dopo pochi anni a Rio 92 si è iniziato a parlare di Convenzione quadro sul cambiamento climatico, e stiamo parlando del 1992 quindi a ridosso della vittoria al referendum, alcuni Paesi europei come Germania,Spagna, Danimarca, Olanda, puntarono molto di più sulla scelta dell’efficienza energetica e sulle fonti rinnovabili. I tedeschi addirittura arrivarono a un piano per la sostituzione del nucleare con l’eolico. In Italia, invece, questa scelta ha stentato e stenta».

Ma non furono solo gli aspetti culturali e economici a essere in qualche modo tralasciati o sui quali non ci si è spesi abbastanza. Il movimento non ha approfittato interamente della vittoria ottenuta e della credibilità che un certo progetto si era conquistata nella società italiana. «C’è stato un momento – prosegue Ronchi – nel periodo in cui io stesso ero ministro nel primo governo Prodi le politiche ambientali in Europa erano prerogativa di cinque ministri dell’ambiente che venivano dai Verdi e la maggioranza dei governi aveva una spiccata sensibilità ambientale». Ma questo patrimonio, come si vedrà negli anni successivi, non venne capitalizzato.

«Nel 1989 alle elezioni europee la somma di Verdi e dei Verdi arcobaleno toccò il 7 per cento. In quel momento il voto ambientalista rappresentava la quarta forza politica in Italia superando anche il Msi – ricorda l’ex parlamentare verde Paolo Cento ora in Sinistra ecologia Libertà-. E anche prima, durante il referendum, il movimento era ampio e composito. E soprattutto paritario. C’erano le prime liste verdi locali, le associazioni, Dp e i radicali e anche gruppi extraparlamentari come Lotta continua per il comunismo di cui facevo parte. E tutte sedevano nel comitato, con pari dignità e pari peso. Un modello che sarebbe utilizzabile anche ora, riallacciandosi all’attualità, per la formazione di un’ipotetica unità delle forze della sinistra». Il 7 per cento, che in un sistema proporzionale come quello italiano della fine degli anni Ottanta, avrebbe consentito a un movimento e un’area politica di pesare, e molto. «È stata persa una grande occasione di cambiamento della politica – prosegue Realacci -. La parabola discendente dei verdi inizia a subito dopo quel voto europeo e quel risultato straordinario. Influisce soprattutto la dinamica innovativa dopo il voto dell’Ottantanove. Se i Verdi allora avessero giocato su questi talenti in una politica più ariosa, forse sarebbe cambiato il volto della politica. Se fosse stata accolta la proposta di Craxi della soglia del 4 o cinque per cento avanzata in quel periodo, e se i Verdi si fossero dovuti confrontare anche con altre culture e con altri mondi, avrebbero innescato una parabola virtuosa, invece si sono rapidamente chiusi e da allora si sono trasformati in una piccola forza che ruota al 2 per cento dopo che erano stati la vera novità della scena politica».

La fine del tabù nucleare. Sono trascorsi 20 anni da quando gli italiani hanno detto no al nucleare. E si fa sempre più prepotente la campagna della nuova lobby nuclearista, che dopo anni di silenzio, cerca di riprendere fiato e credibilità. Mentre in tutto il mondo il nucleare sta subendo una flessione, molte forze politiche in particolare del centrodestra, ma anche esponenti e figure legate al centrosinistra, stanno esercitando pressioni per cercare di inserire nelle opzioni energetiche nazionali anche il nucleare. E fra questi personaggi emergono, stridenti, anche alcuni esponenti dell’allora movimento referendario. Su questo è lapidario Paissan: «C’è quasi una sorta di pentitismo. E mi colpisce anche la povertà delle proposte avanzate». Anche dal centro sinistra dell’ultimo governo Prodi. Ma è Ronchi a smontare qualsiasi opzione di tornare al vecchio modello di fissione nucleare: «Con le liberalizzazioni il nucleare è stato messo fuori gioco. In un’economia di mercato costa troppo e sono troppi i rischi sull’investimento».

Ma a ventitré anni da quel referendum oggi il governo Berlusconi, facendo carta straccia della Costituzione per quanto riguarda l’autonomia decisionale e il parere vincolante delle Regioni, oggi vuole imporre di nuovo un modello nucleare sconfitto dalla storia e dal voto diretto degli italiani. Addirittura cercando di condizionare con campagne propagandistiche demagogiche a partire dalla scuola. Fino ad arrivare alle proposte deliranti di introdurre l’ora “di nucleare”. Ecco, infatti, cosa ha dichiarato la ministra Gelmini oggi: «Bisogna fare una corretta informazione sui rischi (del nucleare, ndr), che sono davvero limitati. Riteniamo che il nucleare debba entrare a pieno titolo anche nelle conoscenze dei ragazzi”, ha detto il ministro; e poi ha aggiunto: “Insieme al ministro della Salute Fazio stiamo costituendo un tavolo con esperti di medicina, con il coinvolgimento degli enti di ricerca competenti, per offrire al Paese conoscenze approfondite su un tema propedeutico a scelte politiche”. Secondo la surreale dichiarazioni della Gelmini il problema è che i ragazzi non sono informati. Il fatto che abbiamo ancora le scorie non smaltite delle centrali nucleari chiuse negli anni ‘70 e ‘80 è un dettaglio. «Limitato».

La necessità di ripartire da quel movimento e da quel referendum si fa ogni giorno sempre più pressante. Purtroppo non c’è più quella capacità, a sinistra e non solo, di guardare avanti, di farsi carico davvero dei problemi del Paese. Non è un mistero, anche, che rimettendo indietro di decenni la lancetta del tempo alcuni settori sia del Pd che del sindacato siano di fatto possibilisti davanti a una nuova era nuclearista. Anche il segretario del Pd, prima di doversi fare carico di tutto il partito, sul nucleare ha tentennato più di una volta. Ripartendo da quello che fu il punto di forza di quel movimento: l’informazione e il rigore scientifico. Non dico di ripartire da quel “Comitato per il controllo delle scelte energetiche”. Ma anche, perché non proprio da quello? Le persone, le teste di allora ci sono ancora tutte quante. Come ci sono molti giovani che quella stagione non l’hanno vissuta ma capacità e coraggio di rimettersi in gioco ne hanno. Ripartire da lì, da quel referendum. Evitando di ripetere gli errori che vennero fatti allora.

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