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Non è della libertà dei giornalisti che si discute, è della libertà di tutti che qui si combatte

Non è della libertà dei giornalisti che si discute, è della libertà di tutti che qui si combatte

Caro Piccinini,
mi sono rigirato più volte nella mente il tuo invito a dire qualcosa su questo sciopero e sul tema "come si protesta contro il silenzio: tacendo o parlando?" Ci ho pensato a lungo e solo questo mi è venuto di raccontabile: che il punto di debolezza di questa battaglia sta proprio nel grado di penetrazione del suo argomento dentro l’opinione pubblica e dentro la "ggente". Dico proprio tutti, anche quelli puntuali all’incontro con i telegiornali da una parte. E dall’altra i ragazzi, i giovani, il consenso della società profonda. Lo dico in un altro modo: a me questa battaglia sembra combattuta con gli strumenti di una corporazione. E la cosa è grave, perché non si tratta di farmacisti irritati perché il "polase" si vende anche alla coop. Ma si tratta della libertà di tutti. E allora bisognava andare oltre. Parlo di qualità, non di quantità.

Per questo motivo sono rimasto molto colpito dalla reazione staliniana che un esponente d’Articolo 21 ha riservato ad Arianna Ciccone, che aveva proposto di fare comunque i giornali, di diffonderli gratis, di portarli nelle metropolitane. Di parlare a tutti, farsi sentire. Mi sono chiesto: non è forse questo il problema? Far capire anche a chi è più lontano dalla politica che si tratta di lui, e della sua libertà? E invece abbiamo visto la "Nana Vagante" fatta oggetto del più classico degli attacchi d’antan: "mentre tutti ci sono contro, tu rompi l’unità della categoria e permetti a Feltri di spaccarci".

Che vada a farsi fottere l’unità della categoria giornalistica: insieme a tutti i miti, riti e dogmi della cassapanca sindacale anni ’70 dalla quale trae il suo falso antagonismo pronto ad ogni compromesso. Se i giornalisti permettono, non è della loro libertà che si discute. E’ della libertà di tutti che qui si combatte. E loro non sono i delegati dei lettori a combattere contro il bavaglio, perché nessuna battaglia di libertà è delegabile. Dimostrano qui la loro vecchiezza e la loro debolezza. Hanno fatto una battaglia di categoria dove c’era da farne una di libertà. C’era da chiamare la rete, a questa battaglia. E non se ne vogliano gli amici che hanno preso la parola nelle varie manifestazioni: non basta il blogger, che poi non è mai solo tale ma anche uno un po’ ammanicato, che parla al microfono nell’ora morta della messa di piazza. Ci voleva molto altro che il "delegato della rete".

Ci voleva la consapevolezza che contro il Bavaglio non si combatte una battaglia per la libertà di informazione. Ma per la libertà di espressione. Non per la libertà dei media, e dei suoi chierici, ma per la libertà dell’individuo. Vista da questo punto di osservazione, la battaglia sarebbe stata molto più ampia, molto più forte, molto più capace di sopravvivere all’eventuale voto favorevole alla legge. Perché vedete, io all’editore che paga le multe perché ebbro di libertà, al direttore che accetta la croce, al giornalista che si fa arrestare, non ci credo. Forse qualche angolsassone sì, ma gli italiani no. Semplicemente non ce li vedo, o forse ce li vedo due volte, tre, e poi basta. E allora la disobbedienza e la battaglia la fai con le api della rete. Con lo sciame. Lo sciame non ha mai paura. E’ fatto di individui che vogliono sentirsi liberi. Ma anche dal partito Rai e dai suoi campioni.

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