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Monicelli. Il tempo di vivere, il tempo di morire: le scelte negate

Mario Monicelli non c'è più. E, a distanza di qualche giorno, è diventato ormai un fatto marginale rispetto alle polemiche scaturite dopo la sua morte.

Ma con lui probabilmente è anche venuta a mancare l'ennesima occasione di riflettere su un “determinato” momento della vita che volge al traguardo della nostra esistenza, esistenza umana che, come ricordava Fromm, è in fondo circoscritta ad una scelta tra Vita e Morte. E ovviamente trattandosi stavolta di una “scelta” drastica le discussioni in merito non sono mancate, con veri e propri scontri dialettici arrivati persino in Parlamento forse perché a decidere di farla finita per sempre è stato il novantacinquenne regista viareggino e non un giovane e anonimo tossicodipendente chiuso tra le mura di una cella.

Qualcuno per dare una valenza al suo suicidio ha tirato in ballo l'età, l'arguzia del suo pensare e una mai smarrita lucidità, ma bisogna ricordare che in ognuno di noi è ben vivo e forte l'istinto di conservazione, e la sua regola prima, ossia la sopravvivenza, non è un limite che si può calpestare ed oltrepassare solo ad età avanzata o se si ha la cultura o uno status sociale adeguati, quindi è quanto meno discutibile rappresentare la "scelta di morire" in una scala di valori che pare consentire delle eccezioni e quindi a comprendere la scelta del regista viareggino. Allo stesso modo il paragone con la vicenda Welby ed Englaro è sembrato abbastanza azzardato, se non altro per la diversa possibilità di “scegliere” e agire che ognuno ha avuto oppure no: Mario Monicelli era malato di cancro alla prostata, ma ciò non gli ha impedito di muoversi e trovare, come è avvenuto, il momento opportuno per buttarsi dal balcone dell'Ospedale San Giovanni di Roma dove era ricoverato. E non ha dovuto perdere tempo correndo su e giù per i tribunali per riuscire a legittimare il sacrosanto diritto, come malato terminale, di porre fine in qualche modo alle proprie sofferenze.

Quindi come si fa, in tragedie così diverse tra loro, a non parlare di “strumentalizzazione” se per affrontare un tema delicato e complesso come la morte "assistita" viene preso a pretesto un suicidio come tanti ma che però riguarda un personaggio noto al grande pubblico?

Forse il discorso da fare invece è un altro. Che si tratti di Monicelli, di un prete o dell'ultimo dei delinquenti il “gesto” è comunque una “scelta”, e una scelta di questa gravità presuppone da parte di chi la compie una assunzione di responsabilità, senza dover stare a scomodare l'etica, i laici e i cattolici. E nello specifico, rivolta contro se stessi e non contro gli altri, probabilmente non ti rende un eroe ma neppure un vigliacco o un uomo perso nella solitudine e abbandonato al proprio destino come è stato detto, tanto da doverlo immaginare classato e relegato nel girone dantesco dei suicidi in compagnìa magari di celebrità come Marilyn Monroe ma anche di personaggi come Hitler o Nerone, oltre agli "ultimi" e cioè a coloro che arrivano (e non per scelta) a scrivere con la propria vita la parola FINE costretti da altre tragedie che nulla hanno a che vedere con la solitudine, la depressione o un male incurabile, come ad esempio la discutibile carcerazione per tossicodipendenza (una delle cause di sovraffollamento degli istituti di pena italiani) oppure il ricorso al prestito di un usuraio.

Quindi, anche in questo caso, rimarrebbe da capire il perché di tante parole e ipotesi circa il suicidio di Monicelli fino all'esternazione selvaggia e invadere la dimensione parallela di coloro che non possono rifiutare l'accanimento terapeutico, quando invece vengono relegati e dimenticati in un angolo buio tutti coloro che avrebbero fatto volentieri a meno di tirarsi la corda al collo.

Forse c'era un rispetto che doveva avvolgere in un'aura di umana dignità non tanto l'uomo o il regista ma bensì una delle ultime testimonianze della nostra Epoca fatta di cultura e progresso e non solo di status quo, guerre e ingiustizie. Ma così non è stato, perché la politica degli schieramenti ideologici non accetta testimonianze ma solo testimonial, soprattutto quando non sono in grado, come in questo caso, di poter dissentire.

O forse la vera lacuna in tutta questa ennesima triste storia è che non si è tenuto conto del "momento" e del suo personale punto di vista che lo vedeva, chissà, probabilmente molto contrariato nei confronti di una Morte così brutale, a testa in giù contro il suolo e nel pieno delle proprie facoltà. Ma diversamente non poteva fare, perché nei Paesi “civili” le iniezioni letali sono consentite solo ai condannati (loro malgrado) a morte.

Sì. Con Mario Monicelli è stata persa un'altra occasione. Soprattutto di tenere la bocca chiusa.

Commenti all'articolo

  • Di Gian Carlo Zanon (---.---.---.155) 14 dicembre 2010 10:25
    Gian Carlo Zanon

    La morte di Monicelli che tecnicamente è un suicidio in verità possiede delle sfumature che lo fanno divenire un’altra cosa. La sua scelta, come dici tu, è stata una scelta coraggiosa di un uomo che voleva morire degnamente, da uomo, e non in uno straziante letto di morte. Eutanasia significa buona morte, e lui ha scelto una buona morte. Per lui morire, buttandosi nel vuoto, è stato un buon modo di morire. Ognuno di noi, dato che siamo gli unici padroni della nostra vita, la vita e la morte se la sceglie, non c’è nessun destino metafisico né nessuna divinità che possiede la nostra esistenza.

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