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Minatori: morire per un sì o per un no

Scorrono le immagini. Uomini che protestano nel ventre della terra per far giungere il loro grido di dolore dalla profondità in superficie. C'è tormento, mancanza di prospettive e un minatore durante la conferenza stampa si ferisce il braccio con un coltello.

I minatori sardi non ci stanno ad accettare un destino deciso da altri, che sia la crisi, o la situazione contingente. C'è il rifiuto di perdere la dignità di uomini e il loro modo di comunicare a tutti il disagio del vivere lo possono dimostrare solo così. Pur tuttavia nessuno sembra ascoltarli. In superficie tutto scorre come sempre. Giornali e tv avvezzi a parlare di mercati, spread, borse, incontri tra Monti e la Merkel, che così diventano cattivi conduttori di notizie poiché ormai sembra questa la normalità.

Sembra di essere ritornati agli inizi dell'800 quando la gente scendeva nelle miniere e lavorava per un pezzo di pane nero come i bambini che restavano lì sotto 12-14 ore al giorno. Come è possibile che nell'opulento Occidente ogni giorno che passa decine di lavoratori perdano il posto di lavoro abbandonati a se stessi, senza garanzie senza futuro, simili a cani randagi, brutti, sporchi e cattivi.

Ora più che mai ritornano d'attualità le parole di Primo Levi:

"Voi che vivete sicuri 
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Morire per un si o per un no...
A questo siamo arrivati."
 
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