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Media e potere in Italia: le relazioni pericolose

Oltre Mediaset. Proprietà e Quarto Potere

L’intreccio tra potentati economici e mondo dell’informazione è tema estremamente sensibile e nel nostro paese di scottante attualità da quasi due decenni. Non solo perché il più importante editore del Paese è direttamente impegnato in politica, il che di per sé mette seriamente a rischio uno dei fondamenti essenziali di una democrazia che funzioni, per le chiare implicazioni con la formazione del consenso.

Al di là del caso più eclatante, se andiamo a vedere la composizione della proprietà dei principali gruppi editoriali italiani, emerge chiaramente come il problema sia più generale. Prendiamo, ad esempio, RCS, gruppo con una forte proiezione internazionale che in Italia edita, tra gli altri, il Corriere della Sera, con la Repubblica il più influente e diffuso quotidiano nazionale. Nella proprietà hanno quote rilevanti alcune delle principali dinastie industriali e finanziarie del Belpaese: l’accomandita degli Agnelli, la Premafin dei Ligresti, l’Italcementi dei Pesenti, la Pirelli di Tronchetti Provera, la Dorint di Della Valle (vicino a Montezemolo, sempre in predicato di entrare nell’agone politico) e i Merloni di Indesit, solo per citarne le principali. Altre, non presenti direttamente nel capitale sociale, lo sono indirettamente, attraverso Intesa Sanpaolo, ma soprattutto Mediobanca, con le Generali, i tradizionali salotti buoni dell’alta borghesia industriale italiana. Legato a questi ambienti è anche il Gruppo De Agostini, della famiglia Borolli Drago, azionista delle Generali e fortissimo nel settore televisivo in Spagna, dove pure il Biscione controlla, tra le altre cose, due reti in chiaro.

Recentemente RCS ha poi visto aumentare l’influenza nel suo azionariato di gruppi considerati molto vicini al Cavaliere, che di suo ha una quota importante anche in Mediobanca, in cui già erano rappresentati interessi a lui molto vicini, come il finanziere franco-tunisino Tarek Ben Ammar, alter ego di Sua Emittenza nonché suo socio in Nessma Tv, una televisione al servizio di tutte le dittature del Maghreb.

Recentemente parte delle azioni libere e non sindacate del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, già a suo tempo sottoposto a una improbabile scalata da parte del sino ad allora sconosciuto Ricucci (Ricucci chi? Si chiesero in via Solferino) sono state rastrellate da Giuseppe Rotelli, il discusso re della sanità privata lombarda, pure considerato molto vicino al Premier. Quasi tutto il Gotha del mondo economico finanziaro italiano è rappresentato nel quadro azionario che, come detto, si è recentemente aperto con qualche innesto di parvenus. Considerando che da diversi esercizi ormai Rcs ha conti in rosso, appare chiaro come, dietro tutto questo turbinio di pacchetti azionari, non vi siano molte ragioni economiche, ma mere questioni di potere.

Accanto al Premier, cui fanno capo le reti Mediaset, Mondadori, il Giornale, Panorama e il Foglio, il Gruppo L’Espresso (la Repubblica, L’Espresso e numerosi quotidiani locali) appartiene a De Benedetti, la Stampa appartiene agli Agnelli, Il Sole 24 ore alla Confindustria, mentre il Messaggero e il Mattino a Caltagirone, il costruttore romano suocero di Casini (sarebbe meglio dire che Casini è il genero di Caltagirone), la cui liquidità è stimata intorno ai due miliardi di euro.

Continuando a scorrere l’elenco, l’Unità è di Soru, il proprietario di Tiscali, mentre Libero è di Angelucci, parlamentare PDL e principale operatore della sanità laziale. Settore, si vede bene, in cui il rapporto con la politica è essenziale. Sky, ormai affermatasi come uno dei principali operatori televisivi anche in Italia, dove è riuscita a rompere il duopolio, fa capo a Rupert Murdoch, il maggiore protagonista della destra mediatica globale, anche noto come the Shark per via dei pochi scrupoli che si è sempre fatto, come mostra anche il recente caso News of the World.

Il Giorno, la Nazione e Il Resto del Carlino col Quotidiano Nazionale appartengono ai Monti Riffeser, L’Avvenire risponde alla CEI, mentre La7 fa capo al Gruppo Telecom Italia. Abbiamo citato solo i principali, ma il quadro non cambierebbe sostanzialmente se ci occupassimo dei minori.

Se poi consideriamo come, delle restanti testate, molte facciano direttamente capo a partiti politici e come solo Il Fatto Quotidiano e il Manifesto siano posseduti dai giornalisti, si capisce come, in un settore così delicato per la formazione dell’opinione pubblica, gli spazi di libertà siano molto angusti, con editori politicamente molto schierati e poco rispettosi dell’autonomia delle testate, com’è il caso di molti dei nomi citati.

Il rapporto media-politica non è però univoco, per via del finanziamento pubblico all’editoria, che fa sì, ad esempio, che giornali dalla tiratura molto ridotta come la Padania (che costa al contribuente 4 milioni l’anno) possano sopravvivere praticamente solo grazie ad esso. Anche la politica è quindi in grado di condizionare fortemente l’informazione.

Altro giornale largamente sovvenzionato è Libero che, a ben guardare, a dispetto del nome, tanto libero non è: il fatto che spesso abbia la stessa apertura del Giornale e che insieme lancino campagne diffamatorie contro l’avversario di turno del Premier, in modo coordinato, farebbe pensare che risponda a una sorta di centrale informativa che dà direttive, come le veline del Ventennio. Un burattinaio, insomma.

Per carità di patria preferisco non parlare del glorioso (un tempo) Avanti, di proprietà di Lavitola, latitante pure abbondantemente foraggiato dallo Stato, che del vero e proprio killeraggio, basato su dossier spesso falsi, ha fatto una ragione di vita.

Tornerei ora al Corriere, crocevia di tanti interessi e camera di compensazione di altrettanti appetiti, perché credo rappresenti un caso da manuale per chi volesse studiare il legame tra i media e il potere economico, e in particolare, come i grandi potentati economici-industriali siano in grado di condizionare e, talvolta, intimidire il potere politico.

Nella prima parte del secondo esecutivo Prodi, il Corriere tenne una linea editoriale abbastanza equilibrata, salvo poi mutare, in occasione di alcuni eventi, di cui dirò poi. Premetto che non amo l’understantment britannico del giornale, né certi suoi editoriali cerchiobbottisti che, per essere british, hanno finito per essere troppo teneri con certi comportamenti dell’attuale maggioranza. Parlo del malcostume dilagante che ha poi reso le istituzioni quel lupanare che sono diventate e che ora le sue principali firme stigmatizzano, dopo averli a lungo sottovalutati. In quegli anni, dicevo, dopo l’endorsement della campagna elettorale, la linea della testata divenne via via più ostile all’allora maggioranza (con il parallelo moltiplicarsi degli editoriali di Ostellino).

Il succitato improvviso cambiamento di linea credo renda il caso del Corriere particolarmente significativo degli intrecci perversi tra media, economia e politica e il condizionamento esercitato sui media dai potentati economici. Il Governo Prodi andò infatti a toccare gli interessi molto privati di due suoi importanti azionisti: il piano Rovati mirava ad aumentare il livello di concorrenza nella telefonia sottraendo la rete alla Telecom, allora di Tronchetti Provera e dei Benetton, e Di Pietro, come Ministro dei Trasporti, rifiutò di riconoscere gli aumenti tariffari alla società autostradale dei Benetton in mancanza dei lavori che questa pure si era impegnata ad eseguire. Un esempio che, ripeto, a mio avviso, è illuminante per i rapporti di forza tra media e potere.

Se, infatti, nemmeno il Corriere, testata tra le più autorevoli e con firme di prestigio e che, per di più, non ha un azionista di riferimento, è così facilmente influenzabile, si vede bene come nessuno è al sicuro. Anche le recenti e crescenti critiche del giornale al Governo Berlusconi, credo siano legate anche alla maggiore autonomia garantita dal nuovo management di Mediobanca, Nagel e Pagliario. E dalla discontinuità col passato che questi hanno voluto segnare a seguito della defenestrazione di Geronzi, altro sodale di Berlusconi, da Generali, dove il banchiere romano era arrivato dopo le parentesi in Unicredit, il cui ex amministratore delegato Profumo, peraltro prima di essere a sua volta liquidato, aveva rotto col passato scegliendo di uscire da RCS.

Alla luce di quanto sin qui detto, mentre gli spazi appaiono così angusti per la libertà di informazione nei media tradizionali e la dittatura della maggioranza stringe il bavaglio alla Rai, secondo il più spietato spoil-system, parallelamente, nel web nuovi spazi di libertà e di discussione politica si sono aperti per l’informazione orizzontale che si diffonde e amplifica attraverso, ad esempio, i social network.

Nel mondo attuale, dunque, il flusso delle notizie tenda a sfuggire naturalmente alla censura. Tuttavia, già per solo il fatto che una parte notevole della popolazione è, di fatto, esclusa dall'informazione on line, si impone d’urgenza la necessità di una legislazione che garantisca l’autonomia dei giornalisti dalla proprietà dei media per i quali lavorano.

Per democratizzare l’informazione si potrebbe, ad esempio, sottoporre il direttore alla esclusiva fiducia del consiglio di redazione, ma tante sono le soluzioni che si potrebbero immaginare. Il settore televisivo è in questo senso particolarmente sensibile non solo perché la proprietà è qui singolarmente concentrata e il numero degli operatori molto ridotto.

Si aggiunga poi che, mentre la carta stampata, quali che siano le opinioni sostenute, sollecita la nostra intelligenza, la televisione ci tiene in una posizione passiva. Come se non bastasse, a differenza della carta stampata, dove tutte le aree politiche sono sufficientemente rappresentate, nelle tv prevale largamente una parte. La qual cosa ritengo abbia qualche legame con le posizioni molto conservatrici di una quota maggioritaria dell’elettorato italiano, specie di quello meno istruito.

Inoltre, mentre le versioni online delle principali testate ne hanno grandemente aumentato la penetrazione rispetto al cartaceo, i giornali hanno un target di gente con un certo grado di istruzione, in grado di farsi opinioni proprie. La televisione, al contrario, ha un pubblico più vasto e non sempre in grado di distinguere la propaganda dai fatti sulla scorta dei quali valutare in autonomia. Aumentare il numero degli operatori attraverso l’abolizione di quella vergogna che è la legge Gasparri con più stringenti limiti antitrust è di per se stesso garanzia di pluralismo.

E' d’assoluta importanza salvaguardare la Rai che non va privatizzata, come sostengono alcuni di quelli che oggi la umiliano con lottizzazioni selvagge, ma, al contrario, va mantenuta pubblica. Liberandola, ovviamente, dal controllo della politica che ha fatto sì che il Tg1, per esempio, sia indistinguibile dalle Reti Mediaset, descrivendo l’uno e le altre un paese che semplicemente non esiste. Nel caso della Rai, dato che, mentre il direttore generale è nominato dalla maggioranza, il presidente è in genere figura di garanzia e prestigio, per prassi indicato dall’opposizione con il consenso della maggioranza, si potrebbe affidare la supervisione, il controllo e le nomine a un Consiglio di ex presidenti. Salvaguardandola così dalla maggioranza quale che sia.

Per concludere, il problema dell’informazione va ben oltre il caso contingente del Caimano, il quale, che cada subito o arrivi a fine legislatura, è ormai quasi unanimemente considerato finito.

Tutto questo detto, si vede bene come una riforma del sistema informativo non possa essere procrastinata ulteriormente e la necessità di una Rai che sia davvero al servizio dei cittadini rimanga anche oltre Berlusconi. Per questo, ripeto, è giusto che la Rai rimanga pubblica e che venga finalmente liberata dall’arroganza e dalla tirannia delle maggioranze di turno. A garanzia della sua indipendenza e del servizio pubblico che giustificano il canone, e a servizio dell'interesse collettivo, contro quello particolare e non sempre legittimo di taluni.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.82) 17 ottobre 2011 11:23

    L’articolo mi trova perefettamente d’accordo. Nel mondo ideale, vedrei bene una riforma della RAI ispirata allo statuto della BBC, con il CDA rispondente in ultima istanza al presidente della repubblica - essendo che la regina non l’abbiamo - e - forse - ai senatori a vita, in quanto massima incarnazione dei valori repubblicani e, in fondo, individui tutto sommato esterni alla politica militante.

    Una legge antitrust particolarmente severa, con tetto del 25% di proprietà su di una - e una sola - rete, con l’obbligo di certificare le quote di proprietà per poter emettere (hai una scatola cinese delle Cayman nella catena degli enti proprietari? non puoi trasmettere in chiaro), potrebbe poi ridare un minimo di decenza al settore delle televisioni private.

    Resta un dubbio atroce, però... dalla nostra classe politica, davvero possiamo aspettarci qualcosa del genere? Dell’attuale compagine di governo, già sappiamo... ma è pur vero che, quand’anche le opposizioni hanno governato, non han fatto niente per ovviare alla concentrazione di proprietà dei nostri media, od alla manifesta sudditanza della maggioranza dei giornalisti ai "padroni". Sudditanza che, se pur comprensibile, rende assolutamente ridicola l’esistenza dell’albo dei giornalisti.

    Sono vent’anni che la situazione è questa, ed ai nostri politici è sempre parso andar più che bene cosí.

    Anzi, tutto sembra indicare che, se pur essi sentono la necessità di regolar qualcosa, questo qualcosa è quel covo di anarchici che è evidentemente Internet, ritrovo di facinorosi intenti a scrivere commenti come questo. Non certo la RAI, Mediaset o il Corriere. Quelli gli van bene cosi.

  • Di Giuseppe Riccardi (---.---.---.144) 23 novembre 2011 18:32
    Giuseppe Riccardi

    I hope it has been useful to you

  • Di (---.---.---.196) 26 novembre 2011 07:59

    Gee whiz, and I tohught this would be hard to find out.

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