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“Mangano eroe? Un messaggio di Dell’Utri ai boss”. Intervista al pg Nino Gatto

Il procuratore generale Antonino Gatto, che ha sostenuto l’accusa nel processo d’appello a Marcello Dell’Utri, spiega ad AgoraVox perché Spatuzza è attendibile e perché è necessario che la stampa si interessi del processo. E racconta come il senatore del Pdl ha intrattenuto rapporti con la mafia fino al 2008.

“Mangano eroe? Un messaggio di Dell'Utri ai boss”. Intervista al pg Nino Gatto

«Sono profondamente deluso», aveva detto il pg Antonino Gatto dopo la lettura della sentenza di appello che ha condannato Marcello Dell’Utri a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, ma lo ha assolto dalle accuse di avere stretto un patto politico con Cosa nostra. Dal 1992 in poi, il senatore del Pdl non è stato più un alleato della mafia. O, almeno, non ce n’è la prova. Strano che un soggetto in rapporti di amicizia con Cosa nostra per vent’anni smetta di esserlo da un momento preciso. «Appena ho sentito la sentenza, la prima cosa che mi è venuta in mente è la storia di re Salomone che tagliò un bambino a metà per risolvere la faccenda. Mi pare illogico parlare di Dell’Utri come un mafioso a tempo, ma, in ogni caso, è ovvio che bisogna attendere le motivazioni della sentenza per sapere come la Corte giustifica questa decisione».

Alcuni si aspettavano l’assoluzione.

«Molti, a quanto pare, si aspettavano l’assoluzione. Io, per la verità, non è che ci vedo molto per assolverlo. È vero che sono un pubblico ministero e vedo le cose nell’ottica dell’accusa, ma, a mio parere, le prove del patto politico tra Cosa nostra e Dell’Utri sono piuttosto serie. Molti pensavano all’assoluzione per via dell’atteggiamento della Corte che aveva rigettato molte richieste del pubblico ministero. A me francamente pare che sia molto difficile assolvere Dell’Utri. Tant’è vero che per una parte è stato condannato».

Il senatore Dell’Utri, in conferenza stampa, le ha espresso le condoglianze.

«L’ho sentito. Mi dispiace. Anzi, approfitto di voi per un chiarimento. Quando mi ha telefonato una giornalista e mi ha parlato di questa faccenda, io ho risposto in questi testuali termini: “Sono grato al senatore per le cortesi condoglianze inviatemi e con altrettanta cortesia gliele ricambio per la condanna inflitta”. Queste sono state le mie parole. Mi è dispiaciuto leggere che su La Repubblica hanno virgolettato le parole “Lui piuttosto pensi al carcere”. È un’espressione che non mi appartiene e non mi piace. Magari il contenuto è lo stesso, però ognuno si esprime con i termini che gli sono più congeniali. Guardi che è una cosa brutta. Io faccio il pubblico ministero e non mi rallegro mai se qualcuno va in carcere, chiunque sia».

Molti hanno trovato delle analogie tra la sentenza di Marcello Dell’Utri e quella di Giulio Andreotti.

«Mi pare che anche là ci sia un bambino tagliato in due. Ecco l’analogia (ride)».

Poi, però, come risulta dal processo, Dell’Utri ha continuato a ricevere i voti di Cosa nostra almeno fino al 1999.

«Sì, almeno fino al ’99 ha continuato a ricevere i voti di Cosa nostra per quanto riguarda le elezioni europee. Queste elezioni costituiscono un riscontro ex post alla compromissione politica che, secondo il giudice di primo grado, già era avvenuta nel 1994. Mi spiego?»

È stato chiaro.

«Le dico anche di più. Nel corso del dibattimento ho chiesto alla Corte di acquisire delle intercettazioni telefoniche relative alle elezioni politiche del 2008 dalle quali emergono dei contatti tra il senatore Dell’Utri ed esponenti della ‘Ndrangheta calabrese. Ma la Corte non le ha ammesse ritenendo che fossero fuori dalla contestazione perché si parlava di ‘Ndrangheta e non di Cosa nostra. Ma, a mio parere, è una motivazione infondata perché io non ho chiesto di acquisire quelle intercettazioni per far condannare il senatore Dell’Utri per concorso esterno fino al 2008. Le intercettazioni del 2008 mi servivano per lumeggiare la personalità dell’imputato anche con riferimento al passato. In buona sostanza per dimostrare la persistenza della collusione politico-mafiosa fino almeno al 2008. La Corte ha ritenuto di non accogliere questa richiesta».

Dell’Utri, appena dopo la sentenza, ha ribadito in conferenza stampa che Vittorio Mangano per lui è e continuerà ad essere un eroe. Massimo Ciancimino ha detto che potrebbe essere un messaggio del senatore ai boss in carcere.

«Questa opinione non mi pare infondata. Anzi, c’è un passo della mia requisitoria in cui sottolineo proprio questo aspetto. Fuori dal processo Dell’Utri si comporta amichevolmente verso la mafia e i mafiosi, mentre dentro al processo, davanti al giudice, se ne dissocia formalmente. Mi pare che sia una valutazione apprezzabile quella del Ciancimino che, tra l’altro, corrisponde a un’analoga valutazione che io ho già fatto nel corso della requisitoria».

Tra le richieste di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ce ne sono state due, una all’inizio del processo e una più tardi, verso la fine, che riguardavano, più o meno direttamente, la figura di Roberto Calvi come collegata al senatore Dell’Utri.

«All’inizio del processo d’appello il pubblico ministero di primo grado aveva chiesto di approfondire le indagini sulle holding di Silvio Berlusconi per certi collegamenti che potevano essere rinvenuti con alcuni affari di Roberto Calvi. Io ho sostenuto questa richiesta, ma la Corte l’ha rigettata anche perché lì si trattava di una prova piuttosto complessa e ancora in formazione».

Poi tra le carte che ha consegnato Massimo Ciancimino c’è un appunto manoscritto del padre in cui si legge “Calvi-Buscemi-Dell’Utri”.

«È certamente un indizio che merita di essere attentamente vagliato, ma non si può dire che sia già una prova. Massimo Ciancimino non è stato ammesso nel processo, quindi la cosa, al momento, è rimasta così. È una traccia che merita di essere sviluppata nelle sedi competenti».

Sia gli avvocati durante il processo sia lo stesso senatore dopo la sentenza le hanno detto di essere un “portatore”, un portavoce della Procura di Palermo. “Un ventriloquo del procuratore aggiunto Ingroia”, ha detto Dell’Utri.

«Per me questo è un complimento. Sarei onorato di essere un portatore della procura di Palermo, alla quale appartengo dall’anno scorso in qualità di procuratore aggiunto. Però io non sono portatore di nulla perché non è che io ho accettato con gli occhi chiusi la documentazione varia che mi è pervenuta dalla Procura di Palermo. Mi è pervenuta, l’ho studiata e l’ho proposta alla Corte per la parte che ho approvato».

Quindi ci sono delle carte che le sono arrivate dalla Procura di Palermo e che lei non ha chiesto di acquisire in dibattimento?

«Guardi, nel corso di questo processo, oltre che da parte la Procura, ci sono state miriadi di piccole segnalazioni anche da parte della stampa, relative a questioni che ho ritenuto talmente marginali che non valeva la pena di approfondirle. Dovevo operare un vaglio. Se ci si fosse dispersi in mille rivoli, anche in quelli inutili, il processo, che già era complesso, sarebbe diventato assolutamente elefantiaco e ingestibile».

La Corte non ha ritenuto sufficientemente riscontrate o, forse, ha ritenuto false, lo sapremo con le motivazioni, le dichiarazioni dei pentiti sul patto politico-mafioso di Dell’Utri.

«Ecco, lo vedremo dalle motivazioni».

Prendiamo Spatuzza. Gli avvocati hanno detto che delle dichiarazioni di Spatuzza abbiamo sì il riscontro che sia avvenuto l’incontro al bar Doney, ma non lo abbiamo di quello è che stato detto con Giuseppe Graviano dentro al bar.

«Questa è una castroneria giuridica perché se noi potessimo provare quello che si sono detti raggiungeremmo una prova autonoma della collusione politico-mafiosa».

Si spieghi.

«Le dichiarazioni di Spatuzza già costituiscono un elemento di prova. A questo elemento di prova dobbiamo aggiungere elementi esterni, ma gli elementi esterni non possono essere mai costituiti da una prova autonoma del fatto da provare, altrimenti non avremmo bisogno delle dichiarazioni. Se noi fossimo in grado di provare che in quell’incontro le parole sono state quelle, una volta che lo abbiamo provato mi pare evidente che quella sia una prova autonoma della responsabilità e della collusione politico-mafiosa. Ma secondo la nostra legge noi non abbiamo bisogno di provare questo. Dobbiamo trovare elementi esterni di riscontro alle dichiarazioni di Spatuzza. Rendo l’idea?»

Gli avvocati hanno anche detto che i pentiti potrebbero aver letto sui giornali le notizie che hanno consentito loro di formulare le accuse.

«Se guardiamo i processi di mafia da vent’anni a questa parte vediamo che questa è una costante comune. In tutti, e sottolineo tutti, quei processi in cui ci sono dichiarazioni dei collaboranti, i difensori, giustamente nella loro ottica, avanzano la tesi che i pentiti potrebbero avere appreso notizie dai giornali. Però una cosa è la possibilità di apprendere dai giornali, una cosa è fornire la prova che il collaborante ha appreso la notizia dal giornale e poi l’ha strumentalizzata. Io sento parlare sempre di crisi della carta stampata, di crisi dei giornali… Qui pare che i pentiti non facciano altro che leggere i giornali!»

L’avvocato Sammarco, durante la sua arringa, ha parlato di “sovraesposizione mediatica” del processo “assediato da una serie di aggressioni e di incursioni mediatiche” della stampa.

«Mi pare che questo sia un processo su cui l’attenzione dell’opinione pubblica è stata massima perché i fatti di per sé sono estremamente importanti. Quindi l’idea di questo assedio mediatico, nel senso che ci sarebbe stata troppa attenzione, mi pare che sia un’opinione infondata. L’attenzione dei giornalisti è stata opportuna perché la stampa deve conoscere, far conoscere e informare l’opinione pubblica».

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