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Mafia amministrativa all’attacco del Paese. Parola di Ingroia

Magistrati che difendono lo Stato dallo Stato. Ecco. Viene di pensarla così, mentre si teme di dirlo a voce alta se non fosse già urlato da chi di questa difesa ha fatto la sua ragione di vita. 

“Occorre affrontare di petto i pilastri del sistema cruciale mafioso: l’economia mafiosa ingoia quella nazionale e quel che è peggio senza crisi di rigetto da parte dell’economia delle regioni più ricche del Paese. Perché accade?”

Cominciamo dall’inizio. Antonio Ingroia, procuratore aggiunto presso la D.D.A. di Palermo, è ospite della Seconda Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari, per la presentazione del suo libro "Nel labirinto degli dei. Storie di mafia e antimafia".

Il magistrato racconta la mafia attraverso micro storie che fanno la mafia, o l’antimafia, con uno sguardo da addetto ai lavori indignato di fronte a ciò che della mafia passa attraverso i mezzi di comunicazione più immediati, i salotti televisivi e le fiction che finiscono per orientare l’opinione pubblica e fissare l’idea della mafia solo su aspetti letteralmente marginali.

“Quella raccontata non è la mafia italiana. Si parla di mafia per modelli vincenti che sfidano le istituzioni, una mafia fatta di coppola e lupara assolutamente deleteria. Dall’altra parte, uomini come Falcone e Borsellino che hanno fatto della Costituzione i valori della loro vita, sacrificando la vita. E alla fine ciò che resta è l’idea che la mafia sia in ginocchio. Se la mafia fosse solo questo avrebbero avuto ragione ministri come Maroni e Alfano che parlano di successi dello Stato, senza specificare che la struttura militare della mafia è combattuta con la repressione, mentre ciò che davvero conta è la mafia finanziaria, fatta di affari e mutazione di classe, il cui peso aumenta paurosamente”.

In breve, se un tempo la mafia era un fenomeno interclassista, per mutazione genetica oggi intere famiglie mafiose sono rette da professionisti che esercitano la loro attività e la intrecciano con più loschi e redditizi affari, gestendo attività sanitarie o edilizie pubbliche e private. “Questa realtà della mafia è letteralmente ignorata nei salotti buoni, dalla televisione: ecco perché ho ritenuto di dover dare un contributo per raccontare il volto nascosto della mafia”.

Ingroia fornisce gli strumenti utili per comprendere una storia percepita e spesso ignorata per allontanarla. Il suo impegno nel ricordare l’ombra che dalle stragi in poi ancora accompagna la storia d’Italia nasce da un proposito ben più nobile che invogliare a non dimenticare. “La giustizia non è solo un tema o valore su cui fondare una comunità per compiutezza etica, ma ha a che fare con la democrazia. Questa resterà incompiuta fino a quando un popolo non conquisterà la verità sulla propria storia”.

Insomma la questione giustizia al centro degli scontri politici lascia intendere un’attenzione poco focalizzata sulle questioni democratiche e molto più sugli interessi occulti legati a problemi interni alle classi dirigenti. “Fino a quando non si scioglierà il nodo fra classe dirigente e rete criminale, la democrazia non sarà compiuta. I magistrati che hanno colto la dimensione sociale del proprio ruolo lo interpretano in modo personale e lontano dalla burocrazia. Sono magistrati che hanno aperto le porte dei palazzi di giustizia per incontrare i cittadini, gli studenti come fecero Falcone e Borsellino, fino ad essere tacciati di protagonismo. Eppure hanno fatto scuola e oggi i magistrati italiani, rispetto ai colleghi stranieri, hanno un dovere in più che è quello di difendere il Paese da una criminalità più avanzata.”

Una visione brutale, come la definisce il magistrato, che mette a nudo una mafia amministrativa nelle regioni del nord che abbraccia l’economia mafiosa e se ne nutre, un intreccio che minaccia dall’interno l’ordine pubblico e che non vuole essere sovvertito, anzi vive di equilibri e giochi di forza. Gli stessi che definiscono uno degli aspetti più invalidanti nella storia della democrazia italiana: la reazione della comunità nazionale unita contro la violenza mafiosa subito dopo le stragi è piuttosto il frutto di coesione improvvisa e ampia tra popolo ed istituzioni subito dopo eventi destabilizzanti.

Così accadde dopo l’omicidio di Salvo Lima che seminò panico tra i politici che avevano intrattenuto rapporti con la mafia e avevano bisogno di ridimensionare la minaccia criminale. Fu questo il periodo del più corposo sostegno all’antimafia. “Esiste una classe dirigente che non vuole o non può più recidere i contatti e determina una politica di contenimento e non di sradicamento e alla fine il nemico pubblico non è più la mafia, ma la magistratura”.

Come in un labirinto, appunto.

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