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Lui pensa alla gnocca (e a non finire in galera), l’Italia ribolle di rabbia

Ormai siamo agli sgoccioli... non c'è più tempo... il baratro è vicino... eccetera, eccetera. Ogni giorno che passa sembra di vivere dentro un incubo, dove tutto si fa seriosamente tetro tranne il fatto che noi italiani non siamo così seri da cogliere la portata e i rischi della situazione che stiamo vivendo. A partire dalla nostra classe politica, ovviamente.

 

Leggendo i giornali e seguendo i pochi programmi televisivi di approfondimento degni di questo nome, l'incubo si fa limpida certezza. Risalta il quadro di un Paese dilaniato dalle ingiustizie e dalle sofferenze sociali, cresciute a tal punto che ormai alla scontata e naturale indignazione che si respira in lungo e in largo per la Penisola non fa seguito una reazione decisa, compatta, risolutiva.

Prendiamo le ultime occasioni di protesta nelle piazze, ad esempio di alcune associazioni contro quell'ennesima porcata ad personam che risponde al nome di "legge bavaglio" o di gruppi di operai sull'orlo del licenziamento che vogliono restare disperatamente aggrappati al lavoro per tenere lontane le proprie famiglie dall'incombente miseria. Ebbene, a parte le decine di impegnati attivisti o di diretti interessati solo il più totale e avvilente silenzio. Viene da chiedersi se davvero stiamo poi così male come da tempo raccontiamo a noi stessi e al mondo, e che fine ha fatto l'antico valore italico della solidarietà e della condivisione.

Ci siamo ridotti a soffocare il nostro dolore e ad assuefare le nostre vite all'andazzo, perché in fondo in Italia non si cambia mai per davvero. Si è visto quel che è venuto dopo la grande illusione di "tangentopoli", con la casta degli impresentabili scacciata via dalla finestra e rientrata attraverso il portone principale nelle stanze del potere. E con le schiere di affaristi e parassiti riemerse dal nulla, in un sistema maleodorante di furberie e ruberie che continua a reggersi sulle spalle della gente comune e perbene.

Qualche "disonorevole", come con disprezzo chiama i nostri parlamentari don Antonio Mazzi in una sua rubrica online, si lamenta con stupore delle lamentele di noi italiani, sempre pronti a stigmatizzare gli eccessi e i privilegi della politica senza considerare che per (fingere di) occuparsi dei problemi della gente occorrono tempo e, soprattutto, denaro. Altro che qualunquismi da antipolitica! Di fronte a una simile chiusura corporativa, alle ripetute prove di arroganza e di strafottenza dei gaglioffi autonominatisi "tribuni del popolo", continuare a brontolarsi è un inutile esercizio masochistico. Se davvero vogliamo meritarci l'appellativo assai di moda di "indignados", allora indignamoci come dio comanda!

Le famiglie italiane, proprio quelle che fanno i conti con mille difficoltà quotidiane al limite della sopravvivenza, la smettano di frenare i propri figli credendo così di proteggerli. Li lascino liberi finalmente di lottare, anche a costo di rischiare qualche manganellata sulla testa o qualche notte in prigione. L'Italia la possono salvare solo le nuove generazioni ma gli adulti, che già hanno molte colpe sulla coscienza, è ora che rinuncino a ogni egoismo.

Finiamola, per dirla sempre con don Mazzi che certamente non è un pericoloso sovversivo, con i cerotti, le chiacchiere, le finte soluzioni: i più poveri, gli operai, la gente comune debbono presidiare in via permanente la società, non arretrando neanche di un millimetro rispetto alla diabolica avanzata delle redivive cricche della politica e della finanza. Se si avranno la forza e il coraggio di resistere, bloccando il Paese fino a quando la casta non dichiarerà la propria resa incondizionata, è ancora possibile invertire la rotta del declino. Oggi viviamo nel fango, e nei momenti di emergenza non si può che rispondere con azioni urgenti e straordinarie.

Consapevoli che "loro", quelli saldamente in sella, vogliono prenderci per sfinimento e intendono esasperare il nostro disgusto per indurci alla ritirata, dobbiamo invece moltiplicare le nostre energie, rinunciando anche alla sfera più intima per dedicarci solo alla suprema causa della salvezza nazionale. Perchè da noi non deve essere possibile? Perché qui non deve valere ciò che accade a Londra, a New York, ad Atene, a Tel Aviv? Non è ancora troppo tardi, ma bisogna crederci.

Le titubanze, l'immobilismo e la paura giocano contro di noi. Consentono a chi ha tutto da perdere dal cambiamento di proseguire nella perversa strategia di svilire le regole e le garanzie costituzionali. Col bavaglio alla stampa stanno provando a impedirci di essere informati, ci stanno levando l'arma del controllo e del giudizio. Stanno - cosa gravissima per una presunta democrazia occidentale - delegittimando l'indispensabile funzione di sentinella della legalità svolta dai magistrati, arrivando addirittura a prevedere il carcere per i giornalisti. Esattamente ciò che avviene nei regimi dittatoriali.

No, non possiamo cedere adesso. Nel Palazzo hanno un terrore fottuto di perdere tutto, a partire da un presidente del Consiglio avvezzo al malaffare e alle turpitudini. Ma il suo destino, come dell'intera classe politica di questo errore storico che è stata la seconda repubblica, è già scritto: la fuga!

La maggioranza ad personam di Berlusconi sta cadendo a pezzi, ma nel crollo si sta portando dietro tutto il Paese nel tentativo disperato di salvare il Capo e i suoi più stretti sodali da condanne giudiziarie sempre più prossime e certe. E nel gioco al massacro traggono giovamento soltanto i criminali abituali, le organizzazioni mafiose e i boiardi speculatori che hanno ridotto alla fame migliaia di lavoratori e che potrebbero farla franca grazie allo smantellamento dello stato di diritto imposto dal premier.

Guai, pertanto, ad abbassare la guardia. Chiunque abbia a cuore non dico i fondamenti repubblicani ma almeno il futuro dei propri figli, ha il dovere morale di proclamarsi guardiano della democrazia. Per combattere finché i diritti fondamentali e le libertà di tutti potranno dirsi definitivamente salvi.

L'autunno appena iniziato dovrà essere caldo come non lo era da decenni. Decisiva è la spinta alla protesta in particolare degli studenti, che non possono più stare alla finestra mentre l'evoluzione dei fatti li estromette dalla vita del Paese. Devono farsi sentire non solo per difendere l'istituzione scolastica e universitaria dagli attacchi ideologici del governo, ma pure per concorrere all'auspicabile e imminente nodo di svolta. Assieme a loro i precari, fianco a fianco coi dipendenti pubblici, gli operai, i cassintegrati, i vecchi e nuovi disoccupati. Non bisogna dare tregua all'animale ferito del berlusconismo.

E come spiega Gustavo Zagrebelsky nel manifesto dell'iniziativa "Ricucire l'Italia", lanciata dall'associazione Libertà e Giustizia e in programma a Milano nella giornata di sabato 8 ottobre, se qualcuno continua a chiederci se serva davvero manifestare, c'è una sola risposta da dare: serve! Se lo scorso anno non ci fossero state tantissime manifestazioni in piazza di studenti, donne e lavoratori, probabilmente non sarebbero stati possibili gli esiti referendari di primavera o i cambi epocali in importanti amministrazioni cittadine. Il segreto è proprio questo: dimostrare che non tutto nel nostro Paese è ignobile, è perduto. E che non tutti nella società civile sono disponibili alla resa.

Abbiamo quindi il dovere dell'indignazione e della protesta, per rimettere insieme i cocci di una Nazione sfibrata e travolta dalle macerie del degrado morale e culturale. Per ricucire i diritti con i doveri, il Nord con il Sud, i giovani con gli adulti, il presente con il futuro. Sì, manifestare e riempire le piazze è assolutamente indispensabile per riconquistare la dignità del Paese.

Non si può non reagire ai dati che continuamente ci dicono che l’Italia non valorizza il merito, incoraggia la fuga dei migliori cervelli all'estero, considera i giovani e le donne marginali nel mercato del lavoro, incentiva il precariato, sottoutilizza e sfrutta gli immigrati, deprime le potenzialità degli italiani del Sud dove la malavita protegge il lavoro nero, premia i furbi e gli scrocconi. Non possiamo non ribellarci all'impoverimento generale delle famiglie, con picchi intollerabili proprio nel Mezzogiorno d'Italia dove migliaia di bambini e di adolescenti non hanno di che sfamarsi. Non è più tollerabile, da ultimo, accettare passivamente la tracotanza della criminalità organizzata che stupra il territorio piegandolo ai propri infimi interessi; o adeguarsi inermi alla spaventosa diffusione dell'illegalità, legittimata e resa "normale" perfino ai più alti livelli istituzionali come mai era successo prima.

Anzi, ogni sussulto di dignità rischia di rivelarsi ormai tragicamente tardivo. Perchè più si abbassa lo sguardo, e si attende magari che tutto si risolva come per incanto da sè, e più ci avviciniamo al suicidio nazionale. Nel nostro Paese si consumano ogni giorno vicende di disagio non sempre palesi e note. Situazioni che evidenziano il cortocircuito sociale favorito da anni e anni di malgoverno, in cui al "fare" si è sostituito il promettere e l'illudere. Assai spesso ricorrendo al sistema consolidato della menzogna, della propaganda, della disinformazione.

Giovedì scorso, a "Rete unificata", il web ha trasmesso per tutto il giorno il documento "From Zero", per ricordare il tragico sisma che ha sconvolto L'Aquila due anni e mezzo fa attraverso il racconto delle vite nelle tendopoli. Da allora tante, troppe vuote parole sono trascorse e nulla è davvero migliorato sotto il cielo d'Abruzzo. Sono oltre duemila, secondo i dati dell'Ufficio Politiche Sociali del capoluogo abruzzese, i "nuovi poveri" aquilani che ancora non hanno ricevuto assistenza materiale adeguata dopo il terremoto. Cittadini che fino al giorno maledetto in cui hanno perso tutto non necessitavano di alcun sostegno particolare e che oggi sono senza un tetto, un sussidio, non hanno nemmeno la possibilità di far fronte alla mensa dei figli a scuola. Ma questo l'abruzzese Vespa non lo dice nel suo "salotto buono" della seconda serata. Non può dirlo per contratto.

Nel più stucchevole teatrino della politica, mentre il gran burittinaio di Arcore detta i ritmi al parlamento e al Paese, tenendoli in ostaggio affinché si occupino H24 delle questioni che più gli stanno a cuore, mentre si gingilla con giovani gnocche a pagamento e vola in giro per il mondo a festeggiare i compleanni di uomini di stato squallidi al par suo, altre nubi si addensano all'orizzonte della società italiana.

Le stesse imprese cominciano a manifestare segni di disagio e insofferenza. In questi giorni si è fatto un gran discutere della stretta del credito che si sta propagando come un grande e irrefrenabile blob. Per colpire, appunto, piccole e medie aziende ormai prive di ossigeno ma anche e innanzitutto le famiglie, i cui risparmi rischiano di evaporare di fronte al vertiginoso aumento del famigerato "spread", con le banche italiane sempre meno capaci di raccogliere liquidità e mutui sempre più onerosi. Il contagio è inesorabile. Tutti gli istituti di credito, grandi e piccoli, stanno riprezzando i propri listini innalzando i costi dei prodotti.

Detta più semplicemente, oggi su un mutuo medio di 100 mila euro gli interessi possono aumentare tra i 600 e i 1200 euro l'anno a seconda della durata. Un vero salasso per le famiglie, che peraltro trovano ormai grandi difficoltà perfino ad accedere ai piccoli prestiti al consumo, che stanno viaggiando a tassi tra il 9% e il 10% collocando di fatto le offerte fuori mercato. La gente, insomma, contrae nuovi debiti con le banche e le agenzie di credito per pagare debiti pregressi.

E che dire dei nefasti effetti cumulativi della doppia manovra finanziaria di luglio e di ferragosto, che scarica su ciascuna delle 25 milioni di famiglie italiane un ulteriore costo di 5.700 euro sul triennio 2011-2014 deprimendo consumi e occupazione? Finora gli italiani si sono adattati alla lunga crisi, esplosa definitivamente in recessione nel 2008, intaccando la mole di risparmi accumulati in precedenza. Tuttavia, le varie rilevazioni avvertono che il fieno in cascina, di questo passo, non durerà a lungo. Il grasso si riduce, non si creano posti di lavoro, i genitori cominciano a far fatica a mantenere i propri figli allo sbando.

Ecco perchè, chi di dovere, farebbe meglio a non sottovalutare ulteriormente la polveriera che sta diventando l'Italia. Del resto, i fatti di Barletta dimostrano che nemmeno il ricorso a "sistemi alternativi" può rappresentare a lungo una comoda pezza di appoggio. Perchè quando si rimedia alla miseria con altra miseria, quando ci si rifugia nell'illegalità, le insicurezze rischiano di trasformarsi in tragedie.

Ogni giorno - e lo certifica l'Inail alla vigilia della giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro - in Italia muoiono 3 persone sul lavoro e si verificano in media oltre 2.000 infortuni più o meno gravi. Da questo punto di vista, la tragedia di Barletta è dolorosamente emblematica dell'odierna realtà italiana. In un Paese sempre più in difficoltà dove tante donne e tanti giovani, come detto in particolare nel Mezzogiorno, per poter lavorare devono rinunciare ad ogni garanzia contrattuale e accettare una paga da fame e condizioni estremamente rischiose.

I drammi però si consumano, forse in maniera ancor più frequente, anche laddove non arriva il clamore delle telecamere. Proprio mentre dalle macerie di Barletta si estraevano i corpi esanimi di quelle poverette, un'altra donna era costretta a prostituirsi per curare il figlio di due anni affetto da una grave patologia respiratoria. Una storia venuta alla luce in provincia di Torino e che ha per protagonista una giovane romena, arrivata nel nostro Paese nell'illusione di trovare un lavoro onesto proprio al fine di aiutare il suo bambino. Ma un gruppo di criminali l'ha ricattata e messa per strada, e lei ha dovuto accettare per continuare a non far mancare le cure necessarie al piccolo.

In Veneto, invece, le difficoltà a far fronte ai bisogni primari dei sui tre piccoli figli hanno indotto un operaio a improvvisarsi rapinatore di pizzerie con una pistola giocattolo, per sbarcare il lunario con poche centinaia di euro ad ogni bottino.

Di vicende analoghe se ne potrebbero narrare a decine, forse a centinaia, ogni santo giorno che passa. Con le mense della Caritas che ormai sono affollatissime di gente che fino a non molto tempo fa faceva parte del defunto "ceto medio": impiegati che non arrivano più alla fine del mese, piccoli imprenditori strozzati dai debiti, operai licenziati.

Ci chiediamo se Silvio Berlusconi qualche volta legga i giornali, se ogni tanto guardi un Tg serio (ovviamente non trasmesso dalle sue cinque televisioni) e apprenda della miriade di storie di miseria e dolore che quotidianamente devastano la società italiana. E se provi un po' di compassione autentica, che spinga il suo buon cuore a staccare qualche assegno come abitualmente fa con quelle "poverette" delle olgettine o con quel "disgraziato" di Tarantini...

Ci permettiamo, in proposito, di continuare a nutrire forti dubbi. Ricorrendo a una efficace definizione di Margherita Hack, possiamo concludere che "Berlusconi è una nana bianca, quello che resta di una stella come il Sole quando muore... Il Cavaliere, dopo che avrà esaurito tutta l'energia del nostro povero Paese, dovrebbe finalmente spegnersi". Concordiamo sull'esito, ma a differenza della grande scienziata riteniamo che non si debba attendere che quella nana bianca si spenga da sola. Passerebbe ancora troppo tempo, con l'inevitabile conseguenza di ulteriori e ben più gravi danni all'Italia e agli italiani. Meglio costringere il presidente del Consiglio a lasciare, meglio inviargli un messaggio più chiaro e deciso. Facendoci prestare magari le parole dall'impareggiabile Vauro...

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