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Le liberalizzazioni, la riforma del lavoro e il carattere degli italiani

"Il governo Monti, detto fuori da denti, non sembra aver letto quel che dovrebbero essere gli italiani; quanto dovrebbero essere privi di senso civico e individualisti fino all’autolesionismo. Si sta comportando, con tutti gli errori e i difetti che gli potete trovare, come un normale governo di un normale paese europeo".

Ho sempre trovato odiosi i tentativi di definire dei caratteri nazionali; di condannare gli individui a passare le loro vite dentro gabbie di stereotipi, da cui non potranno mai evadere, in quanto magniloquenti francesi, ottusi tedeschi o sprezzanti inglesi.

Sono discorsi che si direbbero da avvinazzati di bar di periferia, ma che si sentono fare, nelle occasioni più diverse, anche da persone di discreta cultura e che sono, né più ne meno, la base di qualunque razzismo; se i belgi sono noiosi, perché i giudei non potrebbero essere perfidi, gli arabi infidi ed i neri, in una parola, inferiori?

Sono discorsi che, per la più banale delle ragioni, mi diventano insopportabili quando riguardano gli italiani; quando sento dire o leggo e non importa che a dire o scrivere sia un mio connazionale, che gli italiani sarebbero questo o quello. Sono tempi difficili, dunque, per la mia pazienza, dato che è di gran moda tra gli italiani, anche tra chi scrive sui giornali e, soprattutto, in rete, attribuire agli italiani stessi, magari parlando di loro con il distacco con cui un etnologo tratterebbe di uno sperduto popolo amazzonico diversissimo dal proprio, qualunque possibile vizio.

Gli italiani descritti da quegli italiani, non solo sono pasticcioni e inconcludenti, per citare i minori tra i difetti che gli attribuiscono, ma queste e altre loro caratteristiche negative sono immutabili, quasi fossero da attribuirsi ad una tara genetica; avessero, e si torna al discorso di partenza, una base razziale.

Una costruzione intellettuale demente che ha come naturale corollario l’impossibilità di riformare il nostro paese: gli italiani sono così; di conseguenza così è l’Italia e non c’è nulla che si possa fare per sottrarla a quello che, oggi, pare essere il suo triste destino.

Io mi ostino a pensare (sì, sono proprio testone come un tedesco) che poco sia stabilito dal fato e ancora meno dalla genetica; che come comunità nazionale abbiamo certo commesso degli errori, ma che questi siano errori puntali, peraltro non più gravi di quelli commessi da qualunque altro popolo in qualche momento della sua storia, e che come tali possano essere puntualmente risolti.

Il più grave tra questi, forse causato proprio dagli sbagli del passato, è stato quello di scegliere di navigare a vista; di vivere, come paese, alla giornata senza curarci del futuro. Raggiunta l’unità nazionale e finiti miseramente i sogni imperiali del fascismo, non solo non ci siamo attribuiti nessun obiettivo a lunga scadenza, ma abbiamo smesso di progettare valutando costi e benefici nel tempo e, soprattutto, di farlo come collettività.

Il nostro mercato del lavoro ne è un perfetto esempio. Il ricorso al precariato può essere utile alla singola azienda, e solo nel breve periodo, ma quando diventa strutturale, addirittura endemico, toglie al paese qualunque possibilità di sviluppo: dei lavoratori senza nessuna garanzia e sotto-pagati, non acquisiscono mai delle elevate professionalità e, peggio ancora, sono dei pessimi consumatori, per cui il mercato non può che risentirne. E senza mercato, o con un mercato in contrazione, lo dovrebbe capire anche il più liberista degli imprenditori, si muore.

Nel caso italiano, poi, e la demografia del nostro paese ne è la clamorosa dimostrazione, si è arrivati a violare la “legge bronzea dei salari” in un senso che nessun critico di Marx avrebbe mai predetto. Secondo Ricardo i salari dei lavoratori non qualificati non sarebbero mai saliti sopra un livello tale da garantire loro la sussistenza e la capacità di riprodursi; per un neo-laureato italiano, pagato mille euro al mese in una grande città, la sussistenza dipende dagli aiuti di papà e quanto alla possibilità di riprodursi.

Ad una situazione assurda sembra cercare una via d’uscita il ministro Fornero con la sua riforma del mercato del lavoro. A quanto riportano le indiscrezioni giornalistiche, sembra che il ministro voglia introdurre un contratto unico d’ingresso (contro i 48 oggi esistenti) che preveda, dopo tre anni, l’assunzione automatica del lavoratore a tempo indeterminato e con tutte le garanzie di legge. 

Per scoraggiare le aziende ad usare il lavoro temporaneo, si cercherà, tranne per i settori ad elevata stagionalità, di renderlo più costoso di quello a tempo indeterminato; non si potranno assumere temporaneamente lavoratori cui venga corrisposto meno di 25.000 euro lordi l’anno.

Sarà poi posto un limite all’uso dei contratti a progetto: questi non potranno rappresentare più dei due terzi del reddito che un lavoratore ricava da un azienda; se si supera questo limite, e il lavoratore guadagna meno di 30.000 euro l’anno, il suo contratto sarà automaticamente trasformato in un contratto unico d’ingresso. Pare anche che si preveda anche l’introduzione di un reddito minimo di disoccupazione, che dovrebbe prendere il posto degli ammortizzatori sociali oggi esistenti, facendo intervenire la cassa integrazione ordinaria, come in origine, solo in caso di crisi temporanee.

Vedremo poi quali saranno le cifre ed i dettagli definitivi della riforma (è significativo il fatto che il suo contenuto definitivo verrà svelato solo dopo l’incontro tra governo e sindacati previsto, su questo tema, lunedì prossimo), ma non si può che applaudire alla direzione in cui sembra andare.

Soprattutto si dovrebbe applaudire l’atteggiamento di questo Governo: si possono certo criticare le sue decisioni, ma non si può negare che siano prese mirando al lungo periodo e che, senza stapparsi le vesti o proclamare a gran voce la specificità (eterna scusa per non far nulla) della società italiana, stia cercando di correggere gli errori che abbiamo commesso in un passato, a volte, assai recente.

Le liberalizzazioni sono un altro esempio di questo. Si possono trovare mille ragioni per mantenere lo status quo; per lasciare ai tassisti, per citare la più vociante delle categorie coinvolte, il loro monopolio. Di queste ragioni, però, non se ne può trovare neppure una, che abbia a che vedere con gli interessi dell’Italia, che ha solo da guadagnare dall’avere più taxi e più economici sulle strade delle sue città: si creerebbero subito migliaia di posti di lavoro; si ridurrebbero il traffico e calerebbero le spese generali per la mobilità.

Badate bene, non sto innalzando un peana a Monti ed ai suoi ministri: ogni loro decisione può essere sbagliata, criticabile e certo criticata, ma non si può negare che sia presa, magari sbagliando, mirando agli interessi a lungo termine del paese. 

Il governo Monti, detto fuori da denti, non sembra aver letto quel che dovrebbero essere gli italiani.Quanto dovrebbero essere privi di senso civico e individualisti fino all’autolesionismo. Si sta comportando, con tutti gli errori e i difetti che gli potete trovare, come un normale governo di un normale paese europeo.

E a me va benissimo così.

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