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Le amnesie della sinistra e l’ipocrisia sul 25 aprile "Festa della Nazione"

In un articolo recente, Primavere arabe e vecchie abitudini, avevo accennato a un libro di Alessandro Frigerio, Budapest 1956. La macchina del fango, Lindau, Torino 2012, che avevo cominciato a leggere, trovandolo al tempo stesso interessante perché ben documentato, ma «sgradevole», per il tono fustigatorio e per la poco convincente interpretazione del dibattito che vi fu allora nel PCI. Ci ritorno sopra volentieri dopo aver finito di leggerlo tutto pazientemente.

Confermo anche a una seconda lettura il mio fastidio per l’introduzione di Paolo Mieli, che ha fatto un florilegio di orrori e di veri e propri falsi (come l’amplificazione spropositata del numero delle vittime del furore popolare contro la polizia politica che aveva sparato sulla folla nei primi giorni della rivoluzione), ma senza sottolineare minimamente le contraddizioni reali che lacerarono il partito comunista italiano.

Come sanno bene i lettori attenti del Corriere della sera (o della Stampa o di Repubblica…), le falsificazioni non erano un’esclusiva dell’Unità e del PCI di allora, ma sono abituali quando si deve difendere l’indifendibile, come le aggressioni all’Iraq o all’Afghanistan, o altre cosiddette “imprese umanitarie”. Casomai bisognerebbe domandarsi come mai un partito che aveva inizialmente come motto il gramsciano «la verità è rivoluzionaria», abbia finito per usare gli argomenti tipici dei conservatori di ogni tempo, vedendo ovunque complotti e manovre.

Avevo già accennato che leggendo quelle citazioni dagli articoli dell’Unità o di Rinascita selezionati da Frigerio (anzi rileggendoli, dato che quella crisi del 1956 la vissi da dentro il PCI, e fu decisiva per le mie scelte future), mi è venuto in mente spesso il modo con cui una parte della piccola sinistra sopravvissuta liquida oggi i processi inevitabilmente complessi e difficili che si sono sviluppati in gran parte del Maghreb e del Vicino Oriente. Indubbiamente in parte si tratta di un’eredità passata a volte direttamente da una generazione all’altra, e trasmessa tanto più facilmente quanto meno quel che resta dalla grande esplosione del movimento comunista ha affrontato una riflessione sui fattori che l’hanno provocata.

Ho già accennato più volte a quanto poco si sia riflettuto anche su altri momenti epocali, come la non inevitabile tragedia di Allende e di Unidad Popular: invece di analizzarne le cause o di ascoltare le voci che avevano previsto quell’esito, si ricorre in genere a una retorica eroica, mutuata da quella già usata per non spiegare la sconfitta della rivoluzione spagnola. Anche sulle ragioni del riaffiorare di tentazioni fasciste, sul piano organizzativo, o come ideologia minimizzatrice dell’orrore di quel ventennio, non si può dare la colpa solo a Violante, degno predecessore di Napolitano nel proporre unvolemose bene tra i partigiani e i “Ragazzi di Salò”. Rispetto agli anni Sessanta, che avevano visto un fiorire di dibattiti, convegni e pubblicazioni anche severamente critiche, l’antifascismo si è impoverito per la scarsa capacità di differenziarsi da quello ufficiale dei cortei tricolori, che celebravano e celebrano tuttora il 25 aprile come “festa di tutta la nazione“. Cortei con tanti politici al di sotto di ogni rispetto, e tanta retorica, come se la Resistenza non fosse stata subito defraudata e beffata da governi “antifascisti guidati da un criminale di guerra fascista come Pietro Badoglio, che aveva fatto le sue prime prove nel sud sparando sui manifestanti…

Ma quello che è mancato di più al PRC è una riflessione sul crollo a catena del sistema sorto intorno all’Unione sovietica, e che si autodefiniva il socialismo reale, anzi l’unico socialismo possibile… Non prendo neppure in considerazione il PdCI, che essendo nato per difendere la partecipazione a un governo di collaborazione di classe e di guerra, ha sempre avuto bisogno del cemento ideologico della nostalgia acritica del passato staliniano.

D’altra parte già in DP era difficile discutere di questo, sicché quando entrò in un PRC ancora sotto shock per il crollo dei muri e dell’URSS, e ancor più per il cambio di nome del PCI, non contribuì minimamente a spiegare da dove veniva quel cataclisma, che era stato preannunciato da almeno tre grandi crisi.

Quella del 1956, che in realtà non era la prima, dato che c’era stata già la rivolta di Berlino Est nel 1953, che era però stata liquidata dal movimento comunista come fascista, mentre era partita da una sacrosanta protesta degli edili contro un feroce taglio del cottimo. Ma quella crisi fu profonda e poteva far capire le ragioni dell’indebolimento progressivo di quel sistema che a prima vista, e militarmente, appariva fortissimo: nel 1956 non vi era stata solo l‘Ungheria, ma Poznan, che era ancora più evidentemente una manifestazione operaia e comunista repressa nel sangue da carri armati polacchi. In quell’anno vi era stato soprattutto il XX Congresso del PCUS (a cui Frigerio accenna solo superficialmente), che nonostante le reticenze interessate di Chrusciov aveva scosso il movimento comunista, e aveva screditato per sempre il gruppo dirigente sovietico, gettando le basi per nuovi scismi. Non è un caso che Guevara – morto nel 1967 - avesse potuto prevedere nei suoi ultimi scritti la crisi del sistema sovietico.

Il 1968 aveva chiarito meglio la dinamica della crisi, dimostrando l’irriformabilità del sistema staliniano, anche quando era l‘80% del gruppo dirigente di un partito con una storia più che rispettabile a tentarlo. La repressione della “primavera di Praga” non aveva avuto nessun pretesto, non c’erano state “rivolte armate” neppure per difendersi, non richieste di interventi esterni. Ma bastarono le calunnie.

Frigerio dedica una breve appendice a questa vicenda per sottolineare che anche allora non vi fu una vera condanna dell’intervento, ma solo una “tiepida riprovazione”. Giustamente sottolinea l’indifferenza se non l’ostilità del movimento studentesco nei confronti dell’esperienza cecoslovacca, ma solo per attribuirla a una congenita tara del comunismo, ignorando il peso del mito della Cina, che contribuì alla sciagurata ideologizzazione del più forte movimento degli studenti, quello della Statale di Milano, trasformato proprio in quell’anno in pilastro di un revival staliniano. Ma Frigerio, preoccupato solo di bollare il gruppo dirigente comunista (compito facilitato ancora in quell’anno dalla sua ambiguità, dalla mancanza di sostegno al moderatissimo Dubcek, ecc), sorvola sul fatto che la diffidenza di parte della nuova sinistra (escluso il Manifesto) verso Praga era generata dalla consapevolezza che la condanna dell’intervento sovietico da parte del gruppo dirigente del PCI era stata dettata soprattutto da considerazioni di politica interna, legate alla sua lunga marcia di avvicinamento alla “stanza dei bottoni”. Tanto è vero che arrivò a negare la tessera del PCI a un prestigioso dirigente cecoslovacco rifugiato in Italia come Jiri Pelikan, perché non accettava di rinunciare ad occuparsi del suo paese… Su questo rinvio a molti miei scritti inseriti sul sito, tra cui il più agile La tragedia di Praga. 1968 e Polonia e Ungheria '56

Per la stessa ragione comunque anche l’esplosione della rivolta operaia polacca nel 1980-1981 era stata vista con fastidio e pregiudizi non solo da una parte di quel che restava della nuova sinistra, ma anche da consistenti settori operai sindacali, che avrebbero invece dovuto capire la lezione di Danzica, e vedevano solo le manovre di una dirigenza comunista screditata e tatticista (che condannò il golpe di Jaruzelski ma si guardò bene dall’offrire sostegno ai dirigenti di Solidarnosc scampati ai rastrellamenti).

Tornando al libro di Alessandro Frigerio, nonostante il limite fondamentale, un’ostilità preconcetta verso il PCI, colpevole a suo parere di aver ostacolato la creazione di una vera socialdemocrazia in Italia, rimane utile perché fornisce una documentazione inequivocabile sulle indecenti difese della repressione e delle invasioni sovietiche, da parte di dirigenti come Ingrao o Napolitano (che aspettarono molti decenni, e il crollo del sistema, prima di “autocriticarsi” per le posizioni forcaiole). E fornisce un campionario di espedienti usati per giustificare i carri armati, aggrappandosi alla condanna sacrosanta dello sbarco anglo-franco-israeliano a Suez o della guerra d’Algeria. Una tecnica applicata anche oggi nei confronti di chi critica qualche atto di Cuba o del Venezuela o della Siria: “ma non tieni conto dell’embargo, o dell’aggressione USA all’Iraq, ecc.”. Che c’entra?

Frigerio però fa torto soprattutto a chi cercò di opporsi alla linea ufficiale del PCI: o minimizza il loro coraggio (nel caso di Di Vittorio), o irride al fatto che ritenevano giusto discutere all’interno del loro partito prima di rendere pubbliche le divergenze. Non capisce che a monte c’era la giusta convinzione che gli errori o anche i crimini della propria parte devono essere discussi non insieme ai boia fascisti o al nemico di classe che vuole distruggere il movimento comunista per i suoi comodi… Così accade a Frigerio giudicando la lettera dei 100 intellettuali o altre posizioni, che vengono ridimensionate o viste solo al momento della resa di alcuni, senza capire che il comunismo era rappresentato non solo dai repressori, ma da chi li sfidava.

In ogni caso, magari per rispetto a grandi nomi della letteratura italiana, Frigerio riporta passi interi di Italo Calvino o di Carlo Cassola, che rivendicavano il loro comunismo e difendevano gli insorti. Cassola in particolare, aveva scritto che «non credo che i dirigenti di un partito, i quali definiscono “bande armate controrivoluzionarie” i rivoltosi di Budapest, possano essere più creduti da nessuno…». E questa era una diagnosi precisa e profetica: un partito che si regge sulla menzogna, in prospettiva è condannato.

 

Postilla. Che tristezza! Oggi è il 25 aprile e mi tocca sentire l’ennesimo messaggio del presidente Napolitano, che denuncia le “inaccettabili” discriminazioni nei confronti dei fascisti, che sarebbero corrispondenti a “visioni ristrette e divisive del passato”. È la risposta al timido, tardivo (e subito ritrattato) gesto di coraggio della moderatissima ANPI, che dopo gli ennesimi recentissimi insulti al movimento partigiano aveva deciso di non invitare il sindaco fascista Alemanno e la presidente della regione Polverini (idem) alla celebrazione del 25 aprile. È l’ennesima beffa a quella costituzione di cui invece Napolitano si proclama difensore. Basta alle visioni ristrette, il 25 aprile è festa di tutti, e in particolare dei marò…

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