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Le foibe: sessanta secondi di memoria

Bastano sessanta secondi di memoria, un veloce "momento di silenzio" per comprendere la storia?

Charles Baudelaire, "I fiori del male", Al lettore
 

Dieci Febbraio duemiladieci, un minuto di silenzio per l’orrore delle Foibe. Sulla soglia della fine della Seconda Guerra Mondiale, si è consumato l’ennesimo eccidio, stavolta silenzioso, e spesso volontariamente dimenticato.

Negli anni che precedono e seguono la fine della guerra vengono uccisi e gettati nelle foibe dei territori di Istria, Fiume, Gorizia e Trieste, uomini e donne, da parte delle truppe del Maresciallo Tito. Uccisi perché considerati "nemici del popolo", indiscriminatamente, fascisti, democratici o anticomunisti. Annullati all’interno di formazioni carsiche, le Foibe, che presero la forma dell’oblio, di fosse comuni atte non solo a negare l’esistenza delle vittime, ma anche la loro condizione di individui degni di una sepoltura umana; gettati in una fossa comune come se l’orrore dell’utopia possa essere semplicemente nascosto sotto il tappeto in virtù della "volontà del popolo".

Ma dato che l’uomo tenta disperatamente di distinguersi dagli altri esseri viventi tramite la civiltà, e che testimone di questa è principalmente una memoria comune, viene istituito, oggi, dieci Febbraio, un minuto di silenzio. Per riflettere, concentrare la propria mente su ciò che possono creare nell’uomo la paura, l’ignoranza e l’utopia.

Eppure una nota continua a suonare stonata.
Qual è l’effettiva utilità di sessanta secondi di memoria in mezzo a centinaia di giorni di oblio? Nessuna. Perché la già citata memoria comune che lega ogni uomo all’altro, ogni stato a quello confinante e i nostri infinitesimali decenni di vita all’eternità del futuro, si realizza in quanto sovrastruttura d’interpretazione della vita quotidiana, solo quando il fenomeno studiato, che sia la Seconda Guerra Mondiale o la ricetta del risotto con i funghi, permea all’interno del nostro pensiero, diventando tutt’uno con il nostro agire.

Queste note stonate diventano fulcro di una musica basata su quello che Baudelaire descrive come "vile pentimento", non molto dissimile da un bambino che giura di aver fatto i compiti nascondendo le dita incrociate. Un simbolo vuoto gettato sulla strada dell’anno, così, giusto per mostrare che c’è, che esiste, o, se vogliamo, che siamo una razza civile che ricorda i suoi caduti. Ma un simbolo vuoto è come un crocifisso talmente coperto di diamanti da aver perso anche la caratteristica sagoma: è, sì, un bellissimo oggetto da sfoggiare, ma deturpato di quella dimensione simbolica che trascende l’aver unito due pezzi di legno a formare una croce.

A questo mondo non servono sessanta secondi di silenzio accerchiati dalle vane parole di un sistema che trascina verso l’annullamento del pensiero, ma parole, parole per comprendere davvero ciò che è stato. Perché ciò che è stato è molto simile a ciò che ci sarà, se la memoria è sterile confessione sul letto di morte di coloro che hanno dettato il nostro passato, e non testo sacro di coloro che stanno costruendo il nostro futuro.

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