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La trama sottile del reale

di Adolfo Fattori

 

Tutti ci siamo trovati a volte in situazioni che ci hanno messo in scacco. Quei momenti in cui sembra che la trama della realtà si sfibri, si allenti, e ci costringa ad intravedere, attraverso le sue smagliature, un ordito imprevisto, differente da quello che la superficie del reale che siamo abituati a condividere con gli altri, a considerare come “mondo-dato-per-scontato”, come si esprimeva Alfred Schutz, il fondatorte della sociologia di approccio epistemologico.

Sono quelli i momenti in cui la sicurezza che abbiamo di noi stessi – della nostra identità, della nostra stessa esistenza, al limite – barcolla, si incrina, viene messa alla prova.

Questo è il meccanismo profondo su cui si fonda il racconto fantastico, una narrazione che vive di incertezze, di dubbi, di interrogativi destinati spesso a rimanere irrisolti, per il narratore come per il lettore. Un dispositivo che spinge al massimo sul pedale della complicità che deve istituirsi fra scrittore e lettore. Al fondo stesso, forse, del senso del racconto, almeno da qualche secolo a questa parte. Anche quando il narratore appare oggettivo, neutrale, quasi un cronista che registra e trasmette ciò che avviene altrove – nel mondo e nei pensieri – dei suoi personaggi.

Come succede in L’interdetto, uno dei racconti che Gianfranco Pecchinenda sta per pubblicare nella raccolta Come se niente fosse (2015) per le edizioni Ad est dell’equatore, continuando nel suo esperimento parallelo alla sua attività di sociologo, che già ci ha offerto un volume di racconti (L’ombra più lunga, 2009) e due romanzi (Essere Ricardo Montero, 2011 e L’ultimo regalo, 2013) in cui già aveva mostrato la sua predilezione per la cifra del fantastico, come canale migliore per dispiegare la sua attenzione ai temi del doppio, della morte, della memoria, della confusione fra realtà e illusione, dello scambio continuo che si produce nella lettura fra l’autore e il lettore, fra lo scrittore e coloro che ha scelto come suoi ispiratori.

Così in L’interdetto Pecchinenda mette in scena una vicenda estrema, proponendo una storia che, collocata ai limiti delle nostre esperienze possibili, fa da esempio iperbolico di tutti quegli eventi che intervengono ad interrompere la nostra quotidianità prendendoci in contropiede e mettendoci sotto scacco, costringendoci a cercare e articolare una soluzione immediata, veloce, all’irruzione dell’imprevisto nelle routine della nostra vita.

In genere sin tratta di piccole seccature, di contrattempi banali (una ruota bucata quando si sta per accompagnare a scuola i figli, uno scaldino che si rompe mentre ci si sta facendo la doccia…) per i quali si trova una soluzione temporanea – arrangiata, che crea qualche disagio, niente di più – ripromettendosi di risolverli al più presto.

Ma se avviene qualcosa che siamo abituati a collocare ai margini – oltre i margini – delle possibilità? Eventi di cui siamo abituati a leggere nei romanzi, ad assistere nei film o nelle tv series?

Qui cambia tutto. Rimaniamo – almeno per un attimo – paralizzati, basiti, incapaci di agire. Specie se si è individui metodici, meticolosi, abitudinari, solitari, estranei a qualsiasi forma di infrazione alle routine che abbiamo imposto alla nostra vita. Come avviene all’avvocato Charles Benestau in Il presentimento, il romanzo di Emmanuel Bove (http://www.agoravox.it/L-impossibilita-di-farsi-da-parte.html). È esattamente quello che succede a Gerardo, il protagonista de L’interdetto: separato dalla moglie (proprio perché da lei accusato di essere troppo abitudinario), ha però il diritto di accompagnare ogni mattina i figli a scuola. Un’altra routine: ogni giorno Gerardo entra nel suo garage, prende l’auto, va a prendere i figli (l’unica occasione per scambiare due parole con loro, per cercare di mantenere allacciato un legame…) Tutto come sempre. Fin quando… fin quand non torna a casa, rimette l’auto in garage, a marcia indietro… e sente qualcosa dietro una delle ruote, qualcosa di cedevole, ma solido. Scende dalla macchina, va a vedere . e trova un cadavere. Un cadavere nel suo garage!

Ed ecco che l’ordine del suo mondo crolla. Completamente. Si risiede in macchina, e i pensieri e i ricordi cominciano a scorrere, incontrollati.

Le conseguenze del “fatto”, prima di tutto: polizia, indagini, vite private messe a nudo, certo. Ma anche qualcosa di più antico, profondo, messo da parte: i ricordi che stanno intorno alla morte del padre, sepolti da tempo nella memoria. Una mazzata letale, per la sicurezza ontologica, per la fiducia che Gerardo si è sforzato di costruire e di esercitare sul suo essere dentro il mondo che abita con una presenza, un ruolo, una esistenza definite, uno spazio preciso, calcolato, costruito con cura. Fino al’epilogo della narrazione.

E così gli altri racconti, quale più, quale meno dedicati a situazioni normali, a persone “normali”: lo studente, lo scrittore… Fino a quelli più evocativi e rarefatti, in cui Pecchinenda rende omaggio alle sue fonti letterarie – Franz Kafka (Kafka, Kafka), Jorge Luis Borges (Borges Bar) – continuando a costruire giochi di specchi in cui lettore e scrittore si scambiano, si richiamano a vicenda.

I temi attorno a cui si ruota sono sempre quelli in cui vivono le nostre insicurezze, su cui fondiamo le nostre interogazioni: la morte, la memoria, l’identità. Dove andiamo, da dove procediamo, chi siamo

Alle radici dell’attività di Gianfranco Pecchinenda come narratore rimane sempre la sua pratica di sociologo, consapevole che la narrazione è una delle forme con cui si dispiegano i discorsi delle formazioni sociali che si sono succedute nel tempo, e che questa dimensione è particolarmente forte nella Modernità, dalla sua nascita agli esiti attuali. E come il raccontare non sfugge ad una sua dimensione di riflessione sul sociale, così la sociologia non può fare a meno di raccontare. E di riflettere sulle forme del raccontare.

Ma, a differenza degli esperimenti precedenti, in cui il legame fra sociologia e racconto a volte diventava esplicito, negli spazi che lo scrittore concedeva ad un dialogo diretto con i lettori, spingendo verso la forma del romanzo-saggio, in Come se niente fosse questa soluzione diventa più evanescente, sottintesa, mentre la scrittura si fa sempre più leggera, levigata, minimalista.

 

Letture
Emmanuel Bove, Il presentimento, Lavieri, S. Angelo in Formis, 2012.

Gianfranco Pecchinenda, L’ombra più lunga, Colonnese, Napoli, 2009.

Gianfranco Pecchinenda, Essere Ricardo Montero, Lavieri, S. Angelo in Formis, 2011.

Gianfranco Pecchinenda, L’ultimo regalo, Lavieri, S. Angelo in Formis, 2013.

 

 

 

 

 

 

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