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La risata del comandante en jefe

La crisi caraibica continua, e si allarga ad altri Paesi dell’America latina. Dopo la strage in Bolivia dell’11 settembre (ormai si parla di decine e decine di morti, in particolare fonti argentine parlano di un centinaio di caduti) in cui appare sempre più evidente il coinvolgimento, come sostenitori “occulti” dei separatisti che hanno condotto gli scontri, degli Stati Uniti attraverso finanziamenti e consulenze, e dopo l’escalation del conseguente conflitto diplomatico strategico fra Venezuela e Usa e il coinvolgimento della Russia nell’area, anche altri Paesi stanno prendendo posizioni estremamente dure con Washington. A spargere ancora più benzina sul fuoco e a creare problemi all’opera di ricucitura avviata dal presidente cileno Bachelet attraverso l’Unasur, arriva anche L’Ecuador, dove la scorsa settimana è stata approvata la nuova costituzione con un referendum fondato su un modello molto simile agli impianti costituzionali di Bolivia e Venezuela. Poco importa agli Usa che Correia, il presidente dell’Ecuador, non sia Chavez o Morales, e che il principale partner economico sia proprio Washington (addirittura Quito ha abbandonato da alcuni anni la propria moneta adottando il dollaro Usa) quando si parla di “Socialismo andino” o “Socialismo XXI secolo” e poi, come primo atto dopo l’approvazione della nuova costituzione, si chiede allo scomodo alleato “gringo” di lasciare la loro base di Manta. La riunione dell’Unasur convocata dalla Bachelet già sta traballando sotto i colpi di una escalation strategica e diplomatica dalle dimensioni ancora difficili da quantificare. Che, con il crollo delle borse, si può ancora, se possibile, drammatizzare.

Washington non ha fatto in tempo a metabolizzare le notizie provenienti dall’America latina (l’orto di casa che si rivolta) che è stata travolta dalla crisi finanziaria «più grave da cento anni a questa parte». Ma non per questo allenta la rinnovata stretta verso l’America latina, puntando chiaramente a mettere le mani sulle riserve di gas e petrolio del Venezuela e della Bolivia e a garantirsi un’autonomia energetica anche in caso di riduzione drastica, e a questo punto inevitabile, dell’impegno in Medio oriente optando per risorse più facilmente raggiungibili e a soprattutto a minor prezzo.



Contemporaneamente, la Russia, come se non bastasse, aveva annunciato pubblicamente di aver concesso aiuti al Venezuela per lo sviluppo di un piano nucleare attraverso u progetto di cooperazione simile a quello impiantato in Iran. «Siamo pronti a verificare la possibilità di operare nell’ambito dell’energia nucleare a scopi pacifici», ha dichiarato Putin la scorsa settimana a cui è seguita immediatamente la diffusione della notizia che dal 2005, grazie all’impennata del prezzo del petrolio, il Venezuela ha speso in Russia 4,4 miliardi di dollari per rafforzare le proprie forze armate. Caracas ha acquistato, tra l’altro, 24 caccia bombardieri di ultima generazione Sukhoi-30, 53 elicotteri e centomila Kalashnikov Ak-103 e starebbe acquisendo anche i sistemi contraerei semoventi Tor-M1 che Mosca ha ceduto nel 2005 all’Iran, otre sommergibili a propulsione convenzionale della classe “Varshavianka”.

Corre la legenda, ma non si sa quanto sia una battuta, che dal suo letto in ospedale il vecchio Fidel rida come un matto ogni volta che gli vengono riportate le notizie sul braccio di ferro in corso.

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