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La riforma della scuola. Tra casta e meritocrazia, troppo poco

Se sei figlio di papà, andrai di sicuro all’università e lì, con tutta calma, magari in un decennio o più, magari dopo aver vagato qua e là alla ricerca della facoltà giusta, ti laurerai, per poi andare ad occupare l’incarico (parlare di posto di lavoro, nel tuo caso, sarebbe riduttivo) che ti attende dalla nascita.

Se sei figlio di nessuno, non importa quanto tu sia bravo, quali doti tu abbia, difficilmente, specie in certe zone del sud, ma non solo, arriverai a diplomarti. Finirai, se ti va bene, la scuola dell’obbligo, dopo di che sarai condannato all’ergastolo in una catena di montaggio o con un badile in mano. O peggio.

Hai 12 o 13 anni e disegni benissimo? Sei un piccolo genio matematico? Scrivi con facile naturalezza? Stai sicuro che, se sei nato nel quartiere sbagliato, nessuno si accorgerà del tuo talento. Peggio ancora; chi lo riconoscerà te lo rinfaccerà quasi si trattasse di uno spreco: perché proprio a te, quei doni? Tanto, e forse te lo diranno con una lacrimuccia da coccodrillo in angolo dell’occhio (nulla piace quanto sentirsi buoni, anche agli insegnanti), per te non possono fare niente e a te quelle tue capacità non serviranno mai. Salvo miracoli, che però accadono assai raramente, altrimenti si chiamerebbero in altro modo.

I peggiori? Sono indeciso tra i buoni cattolici con la loro carità, “mia figlia ha lasciato dei libri in casa. Magari ne trovi qualcuno che ti piace” e i bravi compagnucci con la loro squisita e beneducata sensibilità sociale: “E’ tutta colpa del sistema. Per uno come te ci vorrebbe ...”. E’ straordinario come riescano, i primi come i secondi, a mettersi la coscienza in pace al prezzo di qualche avanzo e di qualche parola; di quel che a loro non costa proprio nulla.

Meglio gli onesti bastardi che ti guardano dall’alto in basso: almeno ti danno delle motivazioni. Difficile incontrarli, però. Ne ricordo uno, obeso e brufoloso, figlio del più grosso industriale del paese, che mi fece i complimenti per un premio (per un tema su non ricordo che argomento, mi diedero un libro con una dedica del sindaco. Commovente) dicendomi: “Dirò a mio papà di assumerti”.

Molto più comune avere a che fare con un’altra categoria, assai meno sopportabile: quella dei privilegiati incapaci di riconoscere i propri privilegi. Uno, che ho conosciuto grazie alla Rete, mi ha spiegato, con una certa ricchezza di particolari, che dopo il diploma, mentre frequentava l’università, per imparare il mestiere che già era di suo padre, si era impiegato per uno stipendio solo simbolico.

Povero cicci. Non ha mai pensato che tanti, al posto suo, in questo caso avrebbero anche mangiato solo simbolicamente: era un membro della casta dalla nascita (altrimenti non si parlerebbe di casta), il poveretto, e neppure sospettava di esserlo.

Quale casta? Quella chiusissima della classe dirigente italiana. Aperture ve ne sono state, imposte dalla stessa crescita economica, fino agli settanta; da allora, mentre il paese affondava nella melma, sono sempre gli stessi ad occupare le posizioni di vertice, nella politica, come nell’economia o nella cultura. Loro ed i loro figli e nipoti. I movimenti, se pure sono avvenuti, sono stati del tutto apparenti: si sono magari scambiati i ruoli, rovesciate le posizioni, ma sempre e solo tra quelli già dentro il nostro ermetico sistema di potere politico, economico e culturale.

Nessuno che si atteggi a rinnovatore può essere preso sul serio se, dopo la banale denuncia degli sprechi o del nepotismo, non lotta per una trasformazione in senso meritocratico di tutta la nostra società. Trasformazione che da una effettiva estensione dell’obbligo scolastico fino ai 18 anni (e la cosa, a meno che vogliamo far concorrenza alla Cambogia, ha anche un senso dannatamente pratico). Effettiva: accompagnata da misure tali da garantire a tutti la possibilità di studiare fino a quell’età.

Trasformazione che deve proseguire con l’introduzione di un sistema di borse di studio e presalari che consenta davvero, a tutti quelli che lo meritano, di frequentare l’università e deve terminare nella creazione di un sistema economico che, proprio a cominciare dall’assegnazione delle cattedre universitarie, come di ogni altro ruolo di responsabilità dentro il pubblico impiego, premi sempre e solo i migliori.

La riforma della scuola che mercoledì presenterà il governo, va in questo senso?

Sì, ma lo fa tanto timidamente da sembrare in buona sostanza irrilevante. Lo sconto del 30% sulle tasse universitarie, che pare sia previsto per il miglior allievo di ogni scuola superiore, in particolare, sembra una vera e propria presa per i fondelli, se paragonato alle borse di studio che sono offerte in altri paesi. Non sono invece in grado di giudicare quanto indipendenti potranno davvero essere le commissioni chiamate a presiedere i concorsi per le cattedre universitarie, che pare dovranno essere composti da cinque membri; uno interno, tre esterni estratti a sorte ed uno straniero. Quel che è certo è che ora il livello dei nostri docenti universitari è spesso ridicolo (non ho i titoli per giudicarli? Beh, se uno insegna letteratura senza conoscere bene la lingua in cui è scritta...) e che ben difficilmente si potrà peggiorare.

Pochissimo, ad ogni modo, quel che sembrano avere in progetto Monti ed i suoi.

Già troppo, c’è da scommettere, per tanti che fremono di sdegno al solo sentir parlare di meritocrazia. Per tanti membri della casta (magari a propria insaputa) e per tanti che, in fondo, ad una casta dirigente, questa od una nuova, sognano solo di appartenere.

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