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La ricerca della felicità nella cultura occidentale

...e fra non molto anche in quella orientale, Cina in primis

In occidente, dalla seconda metà del ventesimo secolo, il sistema capitalistico e la sua cultura ha consolidato una precisa e ben definita idea di felicità. I soldi ne sono l'emblema; il benessere economico e sociale la formula per essere felici. Ciò che si compra tramite il lavoro (la casa, l'automobile, il televisore...) ne sono lo status symbol, la dimostrazione evidente del successo raggiunto e tanto desiderato, la prova concreta. È sotto gli occhi di tutti noi come in questo periodo il successo lavorativo e il conseguente arricchimento personale è il più comune e ricorrente pensiero di felicità dovuto direttamente alla società consumistica e di libero mercato in cui viaviamo.

Il concetto evidenziato sia dall'articolo terzo della nostra costituzione per cui "È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese" sia dalla dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti "Noi riteniamo che sono per sé stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità" è assai analogo dal momento che, poiché l'uomo è uguale, deve avere la stessa possibilità di riuscire nella propria realizazzione, laddove pare sottinteso, secondo la cultura americana e occidentale, che essa debba avvenire soprattutto nell'ambito della sfera economica, al di là delle naturali differenze socio-economiche. A tal proposito è emblematico il nuovo obbiettivo stilato dal governo cinese da perseguire nei prossimi dieci anni, il raggiungimente della felicità per i propri cittadini, appunto. Di quale felicità si tratterà mai?

Detto questo, viene spontanea la più semplice e complicata delle domande, oltre agli stereotipi dovuti dalla nostra cultura, cosa ci rende realmente felici? Dall'articolo di Maggioni emerge invece, secodo le statistiche, che sia in Europa sia in modo simile negli Usa lo sviluppo economico pro capite non ha aumentato la felicità delle persone, si smentisce lo stereotipo prima affrontato, quindi? Il giornalista precisa che a risposta di ciò vi sono varie tesi, la più annoverata è che: "in realtà ognuno si dichiara soddisfatto in relazione a ciò che può realisticamente ottenere, di conseguenza oggi siamo effettivamente più felici di 20 anni fa ma non ci riteniamo tali perché le nostre aspettative sono cambiate, migliorate,e desideriamo sempredi più".

Ecco quindi che emerge un altro elemento significativo che è tipico del carattere umano: più si ha, più si vuole e ad entrare in gioco è l'avarizia e l'individualismo, sorge quindi spontanea un'altra domanda: si può essere felici senza condividere niente con nessuno? "Il senso di un’azione cortese o generosa verso un amico, un figlio, un collega sta proprio nel suo essere gratuita. Se venissimo a sapere che quell’azione scaturisce da una logica di tipo utilitaristico e manipolatorio, essa acquisterebbe un senso totalmente diverso, con il che verrebbero a mutare i modi di risposta da parte dei destinatari dell’azione. Il Chicago man – come Daniel McFadden ha recentemente chiamato la versione più aggiornata dell’homo oeconomicus – è unisolato, un solitario e dunque un infelice, tanto più egli si preoccupa degli altri, dal momento che questa sollecitudine altro non è che un’idiosincrasia delle sue preferenze. [...] Adesso finalmente comprendiamo perché l’avaro non riesce ad essere felice: perché è tirchio prima di tutto con se stesso; perché nega a se stesso quelvalore di legame che la messa in pratica del principio di reciprocità potrebbe assicuragli". Stefano Zamaghi sostiene che ciò non è conciliabile, o meglio la vera felicità è sempre condivisa e la tesi dello scrittore riporta alla filosofia socratica e presocratica per cui l'uomo, parte integrante della polis non ne può prescindere, o anora più in là coi secoli alla cultura della vergogna omerica per cui l'uomo e il suo onore, il suo dolore o la sua felicità dipendono dalla comunità.

Detto ciò posso affermare che la ricerca della felicità è qualcosa di molto soggettivo e difficilmente schematizzabile dal momento che ogni uomo è unico e vive la propria esistenza diveramente da chiunque altro, parlando però sotto una chiave più strettamente culturale è difficile negare che ogni polpolo e ogni epoca ricerca, a suo modo, una felicità, concreta o apparente che sia.

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