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La realtà, quella vera, me la invento!

Certo Pinocchio non era stato proprio fortunato, lui e quel maledetto problema del naso che si allungava. Poteva essere disubbidiente fin quando voleva, ma mai provare a dire una bugia, si vedeva subito. Oltre ad essere nato burattino era anche condannato a non poter fingere. Lui cercava d’inventarsi una realtà differente ma non era possibile, la misura del naso lo riportava ai fatti. E poi quella Fatina, alla quale nulla sfuggiva, fin troppo coi piedi per terra, lei. In fondo quelle di Pinocchio erano semplici bugie in un racconto che di realistico non aveva nulla, o poco. Ma anche nel fantastico la realtà doveva restare quella e non la si poteva cambiare a piacimento o a capriccio della piccola marionetta che si continua ad indicare, chissà perché, come burattino.
 
Bugia dell’infanzia, in fondo, il cui scopo è forse quello di giustificarsi, di modificare ciò che è, o ciò che è stato, al solo scopo di sfuggire ad una punizione, ad un castigo. Una innocente evasione, si direbbe. La realtà nella quale Pinocchio si doveva muovere, non era la sua, ma quella, se pur fantastica, dettata da Carlo Lorenzini, il quale, per essere fin troppo realista, si era mutato anche il nome in Collodi. Poco importa. Pinocchio a quel mondo, se pur fantastico, doveva essere fedele, e non poteva trascendere. Un sorta di obbligo di firma, il suo.
Tra i maldestri tentativi di Pinocchio e la realtà in salsa fenomenologica i paralleli sono tanti. Quando e se ci soffermiamo a riflettere sulla parola senso, ammesso che decidiamo di farlo, il prodotto della nostra riflessione non sarà mai indifferente a noi stessi. Oggetto e soggetto, che sembrano differenziarsi, in fine resteranno strettamente legati tra loro, intrecciati, fino a confondersi.
 
Il soggetto, seguendo alcuni autori, non è qualcosa di completamente distaccato dal mondo, come non lo è l’oggetto. La bugia e la menzogna sono nel mondo ed, in un cero modo, sono più realistiche della realtà. Esse danno letture differenti di questa, cercano di mistificare, di eludere, di ricostruire, fornendo, appunto uno o più sensi. Spesso questo non è possibile fornirlo nell’immediato, in presa diretta. Nulla di male, a posteriori. Ne è un esempio la storia, o meglio la Storia, tout court, non distinta dalla produzione storiografica. La riproposizione di riletture di alcuni eventi innegabili, ci riferiamo per esempio all’Olocausto, tendono a volere riproporre e ad aggiustare eventi che, pur supportati da cronache e dati certi, ci riappaiono in suggestioni, postume ed à la carte.
Simili meccanismi valgono anche per le storie individuali. Il raccontarsi, narrare le proprie vicende personali, è pur sempre il frutto di operazioni mistificatorie, che ci permettono, in buona sostanza, di dare decenza al nostro vissuto. Ciò che narriamo di noi stessi, o degli eventi che in qualche modo ci appartengono, non è solo il frutto di un lavorio di memoria e oblio, ma anche di cosciente manipolazione di fatti ed eventi. Non si vuol porre, qui, l’accento sulla buona fede, ma sul fatto che questa ricostruzione ed aggiustamento ci permette di dare un senso agli eventi quotidiani. O, anche, a determinare eventi successivi, futuri.
 
Se la realtà è frutto proprio di questa confusione, ibridazione, chiasma, tra oggetto e soggetto, viene da chiederci se ciò che noi concepiamo come realtà, che poi è il senso che noi diamo a questa, sia vera o, in qualche modo, mistificata. Se i fatti e gli atti, per loro natura, siano difficilmente tangibili, fa parte dei dilemmi, non solo filosofici.
Se c’è un autore che ha messo a nudo questo meccanismo questo è Maurice Merleau-Ponty che sembra, forse, darci una nuova lettura di Pinocchio. Citando Vailland, Merleau-Ponty ricorda che: Quando si è sinceri non ci si pensa, non se ne fa esibizione. Dirsi sincero implica già uno sdoppiamento, una riflessione che vizia la sincerità di cui ci si vanta e la rende un atteggiamento. Rendere la sincerità un valore è appunto tipico di una società insincera, che si ripiega su di sé invece di agire sul mondo”.
Riconoscere che la realtà, o anche la società, sia insincera, non è una risposta utile ma può essere uno strumento per una rilettura del vissuto collettivo ed individuale.

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