• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cultura > La realtà è letteraria. Di cose che si trovano nei sogni, nei ricordi, nei (...)

La realtà è letteraria. Di cose che si trovano nei sogni, nei ricordi, nei romanzi

 

F. Campbell, Padre e memoria. Tra fiction e neuroscienze, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2011, p. 175, € 14,00.
 
di Adolfo Fattori
 
… il nostro io è una pura apparenza, inafferrabile, indescrivibile, nebulosa,
mentre l’unica realtà, fin troppo facilmente afferrabile e descrivibile,
è la nostra immagine agli occhi degli altri.
E il peggio è che tu non ne sei padrone.
Milan Kundera, L’immortalità 
 
 
La memoria e l’identità. Uno dei luoghi dove si incontrano gli interrogativi delle neuroscienze e le esplorazioni della letteratura. La memoria di sé e del proprio padre, un luogo adiacente, dove si intreccia la ricerca del senso della propria esistenza attraverso quella del proprio genitore.
 
È un doppio nodo di temi, un dedalo vertiginoso, se si vuole, da cui è facile venire attratti – e in cui ci si rischia di perdere. Mai, forse per questo, affrontato a fondo, e di cui il messicano Federico Campbell in Padre e memoria (2011) ci fornisce una mappa possibile – labirintica anch’essa, in cui si viaggia avanti e indietro fra un tema e l’altro. A partire dall’accantonamento di una premessa tacita, seppur occhieggiante, come un’ombra, al fianco delle pagine che Campbell scrive.
 
E cioè che la verità – assoluta, metafisica, incontestabile – della nostra esistenza, se vogliamo, non esiste. Potremmo essere il frutto dell’illusione di altri, o di noi stessi che ci immaginiamo (o sogniamo) immaginati (o sognati) da altri. La cui esistenza a sua volta, però, potrebbe essere il frutto di un’illusione. Saremmo così incastrati in un irriducibile gioco di scatole cinesi, o in una fuga infinita di specchi, quasi come in un racconto di Jorge Luis Borges. Un enigma metafisico senza soluzione. Su cui ha lavorato la filosofia, e ragiona la sociologia. E su cui naturalmente la letteratura si è esercitata, anch’essa, senza soluzione di continuità.
 
In particolare quella americana di lingua spagnola – intrisa com’è, nei suoi esponenti più noti, di cultura classica, da quella greca a quella anglosassone. Non solo con Borges, naturalmente, così legato alla dimensione fantastica di William Shakespeare, ma anche al suo amico fraterno, Adolfo Bioy Casares. Straordinario, da questo punto di vista, il suo Il sogno degli eroi (1968) del 1954.
 
È la storia di un giovane porteño, un guapo, Emilio Gauna, che durante il carnevale del 1930 decide, con un gruppo di amici, di dare fondo a tutta la somma che ha vinto ai cavalli. Durante i tre giorni di feste e bagordi si scatena, per ritrovarsi alla fine in un boschetto, dove… dove va incontro al proprio destino, la morte.
 
Ma in punto di morte si trova di fronte ad una affascinante, risolutiva, rivelazione:
 
Vagamente sospettò di essere già stato in quel posto, a quell’ora […] di aver già vissuto quel momento.Seppe, o semplicemente sentì, che riprendeva infine il suo destino e che il suo destino stava compiendosi. Anche questo lo consolò.
[...] vide il grande finale, la morte splendente. Già nel 27 Gauna aveva intravisto l’altro lato. Lo ricordò fantasticamente: soltanto così si può ricordare la propria morte. Si trovò di nuovo nel sogno degli eroi, che aveva cominciato la notte precedente [… ] Capì per chi era disteso quel lungo tappeto rosso e avanzò decisamente. (Ivi, pp. 231-232).
 
Gauna è morto – tre anni prima, tre giorni prima? Non ha importanza – e solo da morto, prima di affrontare il “tappeto rosso” che lo condurrà al silenzio e alla pace, riesce a trovare la strada di una plausibile “narrazione del Sé”, del suo , di un se stesso coraggioso e munifico, che era ciò che avrebbe voluto essere. E narrandosi a se stesso, narrando se stesso, si è narrato agli altri, immergendosi nella loro esistenza, e trascorrendo con loro quei tre giorni, o tre anni, limbici, crepuscolari. E poco importa se il passato che ha ricordato è stato “reale”, o il frutto di un sogno fatto dentro la sua morte. Un destino cui si adatta perfettamente una riflessione che Campbell sviluppa nel commentare L’invenzione della solitudine di Paul Auster, un romanzo-saggio-diario in cui lo scrittore americano cerca di dare senso alla morte del padre – per dar senso anche alla propria, in fondo, e alla propria vita:
 
La memoria, allora, non ha operato semplicemente come la resurrezione del suo stesso passato, ma come un’immersione nel passato degli altri, il che equivale a dire: nella storia. (cit., pp. 46-47)
 
E poco conta che il Gauna dell’amico di Borges sia un personaggio letterario che forse “inventa” la propria vita per dar senso alla propria morte, mentre Auster e il padre sono persone reali. La memoria è, in massima parte, opera di immaginazione, come tutta la letteratura – e una sua parte, l’autobiografia – è necessariamente opera di finzione. Come il racconto che facciamo delle vite di altri che si sono intrecciate con le nostre.
 
Come avviene in Tutti gli uomini sono bugiardi (2010) di Alberto Manguel, il “lettore” di Borges, la storia di un’inchiesta giornalistica sulla reale paternità di un romanzo, e sulle reali vicende di chi è considerato da tutti il suo autore. Inchiesta fatta di domande a cui tutti gli interrogati forniscono risposte differenti.
Perché, appunto quando la vita altrui è intrecciata con la nostra, costruendo narrativamente la nostra biografia, elaboriamo quella degli altri. In maniera complementare, e legata alle emozioni, ai ricordi, alle sensazioni del momento in cui ricordiamo. Perché, sostiene Gianfranco Pecchinenda a proposito del romanzo di Manguel,
 
Il punto è che, diversamente da ciò che nel senso comune siamo in un certo qual modo obbligati a credere, se non altro per comodità, le persone, tutte le persone, albergano necessariamente dentro di sé ben più di un solo personaggio, coerente e omogeneo come potrebbe apparire in una sua rappresentazione pubblica. (Pecchinenda, 2010, tondo nel testo).
 
In altri termini, come noi ci “inventiamo” di continuo la nostra identità rielaborando ampiamente i nostri ricordi e adattandola ai contesti in cui agiamo, e visto che la nostra identità è un costrutto sociale, frutto delle relazioni che intrecciamo e di come ce le rispecchiamo, così automaticamente reinventiamo ampiamente gli altri, coloro che hanno intrecciato le proprie vicende con le nostre – e gli altri fanno lo stesso con noi.
 
Campbell sarebbe d’accordo, d’altra parte: scrivendo di Marcel Proust (pp. 87-90), mette in rilievo come lo scrittore francese affermi che i ricordi gli emergevano alla memoria a partire dai sentimenti che gli venivano stimolati dalle sensazioni – specialmente olfattive e gustative – che provava. Venivano scatenati dai sentimenti, quindi. E, contemporaneamente, che il solo atto di ricordare modifica e adultera il ricordo stesso. Se volessimo lasciare il passato intatto, non dovremmo ricordarlo… (ivi, p. 89) il che, però, equivarrebbe a dimenticarlo, e farlo svanire, visto che esiste solo nella nostra memoria.
 
Ma in realtà, scrive Campbell, non esisteremmo senza memoria, e poiché non ricorderemmo senza falsificare – sottrarre, aggiungere, rielaborare – i nostri ricordi, allora rischieremmo di sparire anche noi. Ma abbiamo bisogno di ricordare, per dare senso e significato alla nostra esistenza.
 
Così ri-costruiamo, articoliamo lunghe catene di cause ed effetti, istituiamo coincidenze, elaboriamo necessità. Cerchiamo di piegare il caso ai nostri desideri.
 
Come fa fare Milan Kundera alla protagonista femminile di L’insostenibile leggerezza dell’essere (1985), Tereza, quando stabilisce che il suo incontro con Tomàš, il protagonista maschile del romanzo, è stato quasi una necessità.
 
Come nei romanzi, in cui la costruzione degli eventi deve “dare senso” alle vicende e alle vite? Sì, ma…
 
… sono d’accordo, ma a condizione che la parola “romanzesca” non la intendiate come “inventata”, “artificiale”, “diversa dalla vita”: Perché proprio in questo modo sono costruite le vite umane. Sono costruite come una composizione musicale… L’uomo senza saperlo compone la propria vita secondo le leggi della bellezza…
Non si può quindi rimproverare al romanzo di essere affascinato dai misteriosi incontri di coincidenze… ma si può rimproverare all’uomo di essere cieco davanti a simili coincidenze nella vita di ogni giorno…(Ivi, pp. 59-60).
 
Questa la risposta dello scrittore praghese. Definitiva, se si vuole. Che ribadisce la narratività nucleare della condizione umana. Una risposta pragmatica, potremmo dire, alle interrogazioni sull’identità, la verità dell’esistenza, la narrazione, che gli uomini si sono posti lungo tutto il corso della modernità, a partire dalle opere che fondano la riflessione estetica su questi temi: alcune opere di Shakespeare, naturalmente, come l’Amleto, La tempesta, o il Macbeth, ma anche dal romanzo che dà origine alla letteratura moderna, il Don Chisciotte. Il cui tema fondamentale è, secondo Campbell,
 
… la letteratura stessa: la possibilità della mente umana di abitare due mondi allo stesso tempo e discernere tra i due. Miguel de Cervantes viene a dirci che viviamo in un continuo contatto con la finzione. Dobbiamo vivere – per sopravvivere – nella finzione. (Campbell, cit., p. 57), 
fino a far incontrare il suo personaggio con il suo autore (ivi, p. 115). E ricorda che lo scrittore spagnolo completò il suo romanzo a 58 anni, richiamando indirettamente un’ulteriore riflessione, che ci avvicina all’altro tema del suo libro: il rapporto fra padre, figlio, e autobiografia. Affrontabile, penso, solo quando la gran parte della propria vita è già trascorsa, e il tempo, come ricorda il messicano, sembra accelerare (pp. 48 e segg.), e ci impone, forse, di cominciare a fare i nostri bilanci. E forse è proprio per questo che nella maggior parte dei casi si decide di mettere su carta la propria narrazione di se stessi in età matura, quando il tempo è passato, è più probabile intrecciare ricordo e invenzione, si cerca più urgentemente di dare senso alle proprie vicende, e si fa avanti la paura di essere dimenticati…
 
Riecheggiano le parole del Macbeth di William Shakespeare (2004): La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota piena di rumore e di furore, che non significa nulla.
 
 
Come il fantasma di Emilio Gauna, ombra nell’ombra di se stesso, che si osserva e si racconta dall’altrove, prima che la sua immagine svanisca definitivamente agli occhi degli altri, magari per ricongiungersi al padre…
 
 
Letture
Bioy Casares A., Il sogno degli eroi, Bompiani, Milano, 1968.
Kundera M., L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano, 1985. 
Kundera M., L’immortalità, Adelphi, Milano, 2009. 
Manguel A., Tutti gli uomini sono bugiardi, Feltrinelli, Milano, 2010.
Pecchinenda G., La verità è finzione: Manguel e il grande dubbio della modernità, in “Quaderni d’Altri tempi” 29, 11/2010, http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero29/bussole/q29_b01.htm 27/04/2011.

Shakespeare W., Macbeth, Mondadori, Milano, 2004.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares