• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Europa > La questione catalana e la crisi spagnola

La questione catalana e la crisi spagnola

Oggi la Catalogna torna a fare notizia. Anche sui giornali italiani. Come negli ultimi due anni, anche questo 11 settembre una grande manifestazione occuperà il centro di Barcellona. L’11 settembre è la Diada, la festa nazionale catalana. È una festa molto particolare perché non si celebra una vittoria, ma una sconfitta: la caduta di Barcellona che, in quello stesso giorno del lontano 1714, fu riconquistata, dopo quattordici mesi di assedio, dalle truppe spagnole del duca di Berwick. Atto che pose fine alla guerra di successione spagnola.

I catalani, che appoggiavano il pretendente al trono Carlo d’Austria, furono sconfitti, i Borbone instaurarono una monarchia assolutista e per punire i “traditori” catalani, il re Filippo V impose i Decreti di Nueva Planta che abolirono le autonomie locali catalane esistenti fin dal Medio Evo. Dalla sua istituzione nel 1980, la manifestazione della Diada ha difficilmente raccolto più di alcune decine di migliaia di persone, per lo più indipendentisti duri e puri che reclamavano la secessione della Catalogna da Madrid.

Il cambio è avvenuto nel 2012, quando circa un milione di persone è sceso in strada dietro ad uno striscione dove campeggiava la scritta “Catalogna: nuovo Stato d’Europa”. Nel 2013, poi, oltre un milione e mezzo di catalani si sono dati la mano in una catena umana di 400 km (la cossiddetta Via Catalana) che andava dai Pirenei al delta del fiume Ebro. Per quest’anno gli organizzatori – l’Assemblea Nazionale Catalana (ANC), un’organizzazione independentista nata nel marzo del 2012, e Òmnium Cultural, un’entità fondata nel 1961 che si occupa principalmente della difesa della lingua catalana – hanno avuto un’altra idea per dare visibilità alla causa catalana: le due arterie principali di Barcellona, la Diagonal e la Gran Vía, verranno utilizzate per creare una V di 11 km, che vuole significare “votare, vittoria e volontà”.

Alle 17.14 in punto, questa enorme V si colorerà di giallo e di rosso, trasformandosi in una immensa senyera umana. La senyera è la bandiera catalana. E nella Plaça de les Glories, congiunzione della Diagonal e della Gran Vía, verrà installata una grande barca contenente 947 urne, in rappresentanza dei 947 comuni catalani. Nulla è lasciato al caso, come si può dedurre. Nemmeno l’appoggio finanziario (130 mila euro e le 947 urne, fabbricate dai detenuti del Centro di reinserzione di Lerida), logistico (oltre mille autobus, ecc.) e propagandistico (soprattutto attraverso TV3 e Catalunya Radio, la televisione e la radio pubbliche della Catalogna) del governo regionale, per quanto siano due associazioni non governative le organizzatrici ufficiali della manifestazione.

Secondo Carme Forcadell, presidentessa della ANC, quella di quest’oggi deve essere la “Diada definitiva”, ossia quella che aprirà le porte all’indipendenza della ricca regione spagnola. Il 2014 è infatti un anno altamente simbolico per i catalani: si celebra il Tricentenario della caduta di Barcellona di cui si è detto precedentemente (da qui le 17.14 come minuto clou della manifestazione). Da alcuni mesi la città è invasa da mostre, iniziative ed eventi, dove l’abuso pubblico della storia è piuttosto evidente, con il chiaro obiettivo di legare le celebrazioni del Tricentenario al presente politico catalano.

Ormai non solo nelle conversazioni ai banconi dei bar, ma anche sui giornali e nelle dichiarazioni di alcuni rinomati politologi, storici ed economisti si sente ripetere che "la Catalogna vuole riconquistare la propria libertà e togliersi di dosso l’oppressione spagnola che dura ormai da trecento anni". Inoltre, il 2014 è simbolico per un’altra ragione strettamente legata alla precedente: il prossimo 9 novembre dovrebbe celebrarsi un referendum di autodeterminazione della Catalogna (da cui la V di “votare” della manifestazione di quest’oggi). Un’altra data non scelta a caso: il 9 novembre del 1989 cadde il muro di Berlino. Ma di che libertà e di quale oppressione si sta parlando?Facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire come si è arrivati a questo punto.

 

Le politiche di ricentralizzazione del Partito Popolare e il nuovo statuto d’autonomia catalano

L’antecedente diretto della situazione attuale è il processo legato alla riforma dello statuto d’autonomia catalano del 2005-2006. Il nuovo statuto è stato preparato quando al governo della Generalitat di Catalogna c’era il Tripartito – formato dal PSC, ossia la federazione catalana del PSOE, gli indipendentisti di sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) e i postcomunisti di Iniciativa per Catalunya Verds-Esquerra Unida i Alternativa (ICV-EUiA) e guidato dall’ex sindaco di Barcellona, il socialista Pascual Maragall – e a Madrid il primo governo del PSOE di Rodríguez Zapatero. Il nuovo statuto d’autonomia doveva sostituire quello del 1979, discusso ed entrato in vigore poco dopo l’approvazione della Costituzione spagnola del 1978, durante la fase finale del processo di transizione dalla dittatura franchista alla democrazia.

Nella Costituzione si posero le basi dello Stato delle Autonomie (Estado de las Autonomías): si crearono le 17 regioni autonome (comunidades autónomas) che si dotarono di propri statuti. Inizialmente le tre nazionalità storiche (Paesi Baschi, Catalogna e Galizia) avrebbero dovuto godere di maggiori autonomie, ma nel giro di pochi anni si arrivò al cossiddetto café para todos (caffè per tutti) in cui si copiò il modello di autonomia catalano per tutte le altre regioni, alcune senza un’identità storica e create ad hoc, come la Cantabria, la Rioja o la stessa regione autonoma di Madrid. Invece che creare un sistema di autonomie asimmetriche, vi fu una generalizzazione per ragioni prettamente politiche. In ogni caso, quello del 1979 non fu il primo statuto d’autonomia catalano: nel 1932, durante la Seconda Repubblica spagnola (1931-1939) se ne era approvato un altro, abolito poi con la vittoria dei franchisti nella Guerra Civile.

Il nuovo statuto, con il quale si chiedevano, tra le altre cose, maggiori competenze per la regione autonoma catalana, si concepì però già durante la seconda legislatura di José María Aznar (2000-2004), in cui il Partito Popolare (PP) deteneva la maggioranza assoluta. Fu in quel contesto che la destra spagnola postfranchista del PP si mostrò pubblicamente senza più complessi: si definì una nuova idea di Spagna, dopo il quindicennio socialista di Felipe González (1982-1996) e una prima legislatura dove il PP non disponeva della maggioranza assoluta (1996-2000) e dove governò con l’appoggio esterno dei catalani di Convergència i Unió (CiU): con il secondo governo Aznar sia economicamente sia politicamente sia culturalmente si iniziarono ad applicare una serie di politiche di ricentralizzazione con lo scopo di ridimensionare il più possibile lo Stato delle Autonomie approvato nella Costituzione spagnola del 1978.

In questo contesto, durante la campagna elettorale delle elezioni regionali catalane di novembre del 2003, fu proprio Rodríguez Zapatero – allora segretario di un PSOE che i sondaggi davano ben lontano dalla possibilità di tornare al governo – che appoggiò le voci interne al PSC favorevoli ad una riforma dello Statuto di autonomia della Catalogna. La costituzione, come ricordato poc’anzi, del primo governo del Tripartito in Catalogna (2003-2006) e la successiva inaspettata vittoria del PSOE alle elezioni politiche spagnole del marzo del 2004 – tre giorni dopo l’attentato alla stazione di Atocha di Madrid – diedero il via al processo di riforma dello Statuto che fu approvato dal Parlamento catalano nel settembre del 2005 e con alcune riduzioni e limitazioni fu infine approvato anche dal Parlamento spagnolo nel marzo del 2006. In un referendum, celebrato in Catalogna il 18 giugno dello stesso anno, e in cui votò meno del 50% degli aventi diritto, i catalani diedero luce verde al nuovo statuto.

Il lento processo di dibattito e di approvazione dello statuto e le modificazioni imposte da Madrid crearono un certo malcontento sia politico – ERC decise di votare no al referendum poiché “ridotto” dal Parlamento spagnolo e fece cadere il primo governo del Tripartito – sia sociale. Un malcontento che crebbe gradualmente a causa del ricorso di incostituzionalità dello statuto presentato presso il Tribunale Costituzionale (TC) spagnolo dal PP, allora all’opposizione, che si distinse nella raccolta di 4 milioni di firme in tutta la Spagna, fomentando un mai sopito sentimento di catalanofobia. La questione rimase in standby per quasi quattro anni: il 28 giugno 2010 la sentenza del TC, per soli 6 voti a 4, rigettava il ricorso del PP, ma giudicava incostituzionali 14 articoli dello statuto (di un totale di 238) e dichiarava la “inefficacia giuridica” del preambolo dello statuto in cui compariva l’espressione che la Catalogna è una nazione. La sentenza aprì un vaso di Pandora: il 10 luglio 2010 una manifestazione alla quale partecipò oltre un milione di persone invase le strade di Barcellona per difendere il nuovo statuto del 2006. Il lemma era: “siamo una nazione, noi decidiamo”.

L’inaspettato successo della manifestazione indusse il secondo governo del Tripartito (2006-2010), guidato dal socialista José Montilla, a convocare elezioni anticipate. Tenutesi il 28 novembre 2010, Convergència i Unió (CiU), partito catalanista di destra legato all’oligarchia catalana, che aveva governato la Generalitat dal 1980 al 2003 e che aveva mal digerito la condizione di partito di opposizione vissuta tra 2003 e 2010, sfiorò la maggioranza assoluta, ottenendo 62 seggi su un totale di 135. Guidato da Artur Mas, delfino del “padre del catalanismo moderno” Jordi Pujol, CiU non fu mai indipendentista, ma un partito che giocava la carta delle buone relazioni con Madrid, appoggiando gli esecutivi che non avevano ottenuto la maggioranza assoluta – come con Felipe González nel 1993 e con José María Aznar nel 1996 – in cambio di maggiori quote di autonomia per la Catalogna. Era la politica, piuttosto redditizia per i governi catalani a dire il vero, del cosiddetto peix al cove. A partire dal 2010, pur senza abbandonare questa strategia, Artur Mas, anche per il successo della manifestazione del 10 luglio, iniziò un giro politico che sarebbe approdato, con una notevole ed inaspettata accelerazione, all’attuale posizione indipendentista di CiU.

La crisi economica spagnola

Non è possibile comprendere quel che è successo dopo il 2010 in Catalogna se non si tiene conto delle conseguenze della crisi economica che ha colpito la Spagna in questo ultimo lustro. Il paese che nella prima metà degli anni Duemila sembrava essere diventato uno dei motori europei si è dimostrato, dopo lo scoppio della grande crisi del 2008, un piccolo gigante dai piedi d’argilla. La bolla immobiliare e i relativi fenomeni di speculazione edilizia sono stati la punta dell’iceberg di una situazione che si è aggravata nel tempo: i primi provvedimenti decisi dal governo di Rodríguez Zapatero sono del maggio 2010, le misure draconiane di austerity del governo di Mariano Rajoy sono iniziate nel dicembre del 2011, subito dopo la vittoria elettorale del PP alle elezioni politiche del mese di novembre, la richiesta di aiuto al BCE, che solo ufficialmente non si è convertita in un salvataggio allo stile greco, irlandese e portoghese, è del giugno 2012.

Alcuni dati sono sufficienti per rendersi conto del crollo dell’economia spagnola – un crollo che è stato anche psicologico per un paese che stava crescendo a ritmi sostenuti da oltre un decennio – che si è trasformato in un crollo generale che ha colpito logicamente tutti gli ambiti: quello sociale, quello politico, quello istituzionale, quello territoriale e quello culturale. Nel 2006, l’anno precedente alle prime avvisaglie della crisi negli Stati Uniti, la Spagna viveva in una situazione invidiabile: il debito pubblico era solo del 36%, lo spread non superava i 40 punti, la disoccupazione era all’8,3%, il minimo storico per la Spagna postfranchista, e l’immigrazione di comunitari e di extracomunitari era in continuo aumento. Il panorama attuale è ben diverso: la disoccupazione è oltre il 25% da oltre un triennio e quella giovanile è al 55,5% (valori simili a quelli della Grecia), le imprese continuano a chiudere (ben 16 mila tra 2012 e 2013), gli sfratti per mutui ipotecari sono quotidiani (oltre 400 mila famiglie hanno perso la casa dallo scoppio della crisi), il debito pubblico è arrivato al 98,4%, avvicinandosi ai livelli di quello italiano, lo spread a fine 2011 aveva raggiunto i 638 punti e gli immigrati, ma anche gli spagnoli dopo decenni, abbandonano il paese iberico (nel 2013 la Spagna ha perso 135 mila abitanti).

Dopo sei anni di recessione, da un anno a questa parte il governo di Rajoy non si stanca di sbandierare qualche timido segnale di ripresa economica (+1,1% previsto per il 2014), ma la percezione di tale ripresa è praticamente nulla (attualmente oltre il 90% degli spagnoli ritiene che la situazione economica è pessima). L’unica soluzione adottata per tentare di uscire dalla crisi è quella del mantra neoliberista dell’austerity – tagli al Welfare state, chiusura di scuole e ospedali, privatizzazioni… – provocando un sempre maggiore divario tra ricchi e poveri. Nel 2013 in Spagna il salario minimo è sceso a 753 euro, le famiglie con difficoltà ad arrivare a fine mese sono passate dal 30% del 2010 al 41% del 2013 e la tassa di povertà ha raggiunto il 21,8%: secondo recenti statistiche della OCSE, la Spagna è il secondo paese – peggio ha fatto solo la Lettonia – in cui più è cresciuta la disuguaglianza dall’inizio della crisi ad oggi. Come ricorda Vicenç Navarro, sociologo e politologo dell’Universitat Pompeu Fabra, il 2013 è stato il primo anno in cui, dopo la fine del franchismo, in Spagna, ma anche in Catalogna – in cui la situazione economica non è diversa da quella di tutto il paese iberico – i redditi da capitale hanno superato i redditi da lavoro.

Nel mentre le banche si sono riprese dopo il collasso del 2012, quando il buco di 23 miliardi di euro di Bankia – amministrata in quel periodo da Rodrigo Rato, ex ministro dell’Economia nei due governi Aznar e ex direttore del FMI tra 2004 e 2007 – obbligò il governo spagnolo a richiedere l’intervento del BCE (con un prestito concesso di 100 miliardi di euro). Ma il caso Bankia apriva un altro vaso di Pandora: molte banche spagnole erano indebitate fino al midollo – soprattutto a causa della bolla immobiliare – e le bancarotte, le chiusure, le fusioni o la nazionalizzazione di alcuni istituti (come Bankia, Catalunya Banc e Nova Galicia) sono continuati senza sosta nell’ultimo biennio, insieme alla rimodellazione del sistema bancario spagnolo e alla quasi completa distruzione del solido ed esteso sistema delle casse di risparmio che sono state fagocitate dai cinque giganti bancari iberici (BBVA, La Caixa, Santander, Banco Popular e Banco Sabadell). Oltre al caso di Bankia un altro caso sintomatico è quello di Catalunya Banc, che ha ottenuto 13 miliardi di euro dal Fondo de Restructuración Ordenada Bancaria (FROB) – un organismo creato dallo Stato spagnolo nel 2009 – e che, dopo la sua ristrutturazione finanziaria, è stata acquistata per solo 1 miliardo e 187 milioni di euro dal BBVA. Dopo qualche anno di perdite, a partire dal 2013 le grandi banche spagnole – e catalane, non dimentichiamolo – hanno di nuovo guadagnato milioni di euro (+118,7% per la Caixa e + 90% per il Santander rispetto all’anno precedente).

Le conseguenze della crisi

La crisi economica e la sua pessima gestione, come si è appena ricordato, hanno provocato una crisi globale del sistema spagnolo che tocca non solo il sociale, colpito duramente dalle politiche neoliberiste, ma anche la politica, le istituzioni e l’organizzazione territoriale dello stato. La Spagna, questo è evidente, non è un caso isolato, ma un caso paradigmatico.
Due fenomeni politico-sociali lo spiegano bene. Il primo riguarda la nascita quasi spontanea del movimento degli indignados con l’occupazione della Puerta del Sol di Madrid la notte del 15 maggio 2011 e il dilagare delle acampadas in tutte le città spagnole. Anche, logicamente, in Catalogna, dove il movimento del 15-M – questo il suo vero nome – è stato protagonista di importanti manifestazioni, dall’occupazione della centralissima Plaça Catalunya di Barcellona per oltre un mese al cosiddetto assedio del Parlamento catalano il 15 giugno 2011, quando il governo di Artur Mas stava approvando delle drastiche misure di tagli al sociale (dell’ordine del 10,5% alla sanità, dell’11,5% all’istruzione, del 16% all’università e del 61% alla cooperazione e allo sviluppo per il biennio 2010-2012, che sono poi state approvate). Un movimento, quello del 15-M, che si è innestato in una dinamica globale di proteste (dalle primavere arabe a Occupy Wall Street) ma che ha avuto delle caratteristiche del tutto particolari.

Dato per morto alla fine del 2011, ha invece dimostrato una grande capacità di attecchire sul territorio con assemblee di quartiere, tutt’ora attive, e con la partecipazione ad altre lotte e proteste (per citarne solo due: le Maree in difesa della sanità e l’educazione pubblica che a Madrid hanno ottenuto importanti vittorie o la Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH), che lotta contro il dramma degli sfratti per mutui ipotecari). Ma il lascito più importante degli indignados, al di là delle critiche che si possono fare a questo movimento, è la politicizzazione di una generazione convertita all’apatia politica per disinteresse e per un sistema che aveva decretato “la fine della storia”. Non è un caso che in questo 2014 siano sorte diverse proposte politiche che si agganciano a quel movimento, per quanto le differenze siano notevoli, come Podemos, il partito che ha ottenuto cinque deputati al Parlamento Europeo nel maggio di quest’anno, e Guanyem Barcelona (Vinciamo Barcellona), una candidatura nata a fine giugno che si presenterà alle prossime elezioni comunali nel capoluogo catalano e che cerca di avvicinare diversi movimenti sociali e associazioni a partire dal basso, tra cui la Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH). E anche altri brevi cicli di protesta, localizzati geograficamente, ma che hanno avuto grande ripercussione mediatica e politica, come il caso Gamonal a Burgos (gennaio 2014) o quello di Can Vies a Barcellona (maggio 2014).

Il secondo: nell’autunno del 2012, poco più di un anno dopo l’occupazione delle piazze spagnole, è emerso un altro fenomeno che si collega direttamente alla crisi spagnola: la questione catalana. Come si ricordava all’inizio di questo articolo, l’11 settembre del 2012 oltre un milione di persone sono scese in strada a Barcellona chiedendo a gran voce l’indipendenza della Catalogna. Su questo torneremo in un prossimo articolo.

La crisi che sta soffrendo la Spagna è evidente in tutti i campi. La monarchia è attualmente ai minimi storici di popolarità al punto che il re Juan Carlos I, che più di una volta aveva dichiarato che non avrebbe mai lasciato il trono, si è deciso ad abdicare all’inizio del mese di giugno a favore del figlio Felipe VI. Una scelta inaspettata ed improvvisa – una prova è l’assenza nella Costituzione del 1978 di una legge per l’abdicazione del re, legge preparata all’ultimo e approvata in forma express – che tenta di ridare credibilità alla monarchia e ai Borbone, colpiti anche dall’importante scandalo di Iñaki Urdangarín, genero di Juan Carlos. Non sono stati pochi gli spagnoli che sono scesi in piazza in quei giorni a manifestare a favore della Repubblica.

La Costituzione è poi anch’essa ai minimi storici: secondo un sondaggio del Centro de Investigaciones Sociológicas (CIS) del dicembre del 2013 il 73% degli spagnoli è favorevole ad una riforma della Costituzione e ben il 52,5% non è soddisfatto con la Carta Magna del 1978, quando solo nel 2000 erano, rispettivamente, il 35 e il 29,5%. E anche PSOE e PP, i due grandi partiti che hanno governato la Spagna negli ultimi trent’anni, sono ai minimi storici: dall’82% dei voti ottenuto alle europee del 2009 sono passati ad un misero 49% alle europee di maggio. Il PSOE poi è in caduta libera, dopo gli otto anni di governo di Rodríguez Zapatero, considerato il principale responsabile della crisi economica: il fantasma di una fine stile PASOK non è così lontana e il tentativo di rinnovare e ringiovanire la dirigenza del partito, con le dimissioni del segretario generale Alfredo Pérez Rubalcaba – ministro in varie occasioni sia con González che con Zapatero – e l’elezione, mediante delle primarie sul modello di quelle del PD, del giovane madrileño Pedro Sánchez ne è una prova.

Lo stesso dicasi per la Catalogna dove i due storici partiti che hanno governato la regione e la città di Barcellona sono in grave crisi. Convergència i Unió (CiU) è sull’orlo della separazione tra il settore laico, neoliberista e ora indipendentista (Convergència Democràtica de Catalunya, CDC) e il settore democristiano favorevole a una soluzione federale della questione territoriale (Unió Democràtica de Catalunya, UDC), mentre il Partit dels Socialistes de Catalunya (PSC, la federazione catalana del PSOE) vive una crisi di identità notevole stretto tra un settore catalanista che è in parte uscito dal partito e che ha formato diversi movimenti (Avancem, Nova Esquerra Catalana, Moviment Catalunya) e un settore favorevole a una soluzione federale che controlla la segreteria e che è appoggiato dal PSOE. La situazione di impasse e di incapacità di uscire dal baratro (sono stati persi il 50% dei voti nell’ultimo lustro) ha portato alle dimissioni del segretario Pere Navarro e la sua sostituzione con Miquel Iceta, un esperto uomo dell’apparato che sta tentando di ricucire i pezzi di un partito in dissoluzione.

Ma i casi di corruzione hanno ormai infangato tutti i partiti presenti in Parlamento, oltre alla monarchia – il caso Urdangarín come si è detto – e ai sindacati – il caso degli ERE che ha toccato i vertici della Unión General de Trabajadores (UGT), di orientamento socialista, in Andalusia e che ha colpito la stessa regione autonoma andalusa, da sempre un importantissimo feudo socialista. Il caso Gürtel e il caso Barcenas hanno sconvolto il PP nelle sue roccaforti di Madrid e Valencia, il caso Palau de la Música e le recenti dichiarazioni dell’ex presidente della Generalitat Jordi Pujol – che ha ammesso di non aver pagato il fisco per 34 anni e di avere vari milioni di euro depositati nella Banca di Andorra – hanno colpito duramente CiU, il caso Mercurio ha debilitato il PSC nell’hinterland barcellonese, e il caso Pokemon ha rilevato un’amplia trama di corruzione in Galizia che riguarda sia il PP e il PSOE sia il partito nazionalista galiziano.

La crisi della politica, come in tutto l’Occidente, è gravissima: secondo un sondaggio dell’Encuesta Social Europea, reso pubblico nel gennaio di quest’anno, la fiducia degli spagnoli nei partiti politici (1,9 su 10) e nel Parlamento (3,4 su 10) è la più bassa di sempre. Una crisi dunque che non è solo economica, ma che è anche e allo stesso tempo politica, istituzionale, territoriale e sociale. Una crisi in cui si rimette in discussione la maniera in cui si è gestita la transizione dal franchismo alla democrazia, la costituzione del 1978 e l’organizzazione territoriale dello stato. Ed è in questo contesto che si deve inserire anche la questione catalana.

Appuntamento sabato 13 settembre per la seconda puntata!

 

Steven Forti

Ricercatore presso l’Instituto de Historia Contemporanea dell’Universidade Nova de Lisboa e presso il CEFID dell’Universitat Autònoma de Barcelona

Commenti all'articolo

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità